lunedì 15 luglio 2013

Ladri di saponette - Un'analisi semiotica

Nel precedente post ho accennato alla dicotomia chiave del nostro discorso, ovvero quella fra linguaggi discorsivi strettamente legati alla realtà fenomenologica e quelli invece ascrivibili a realtà altre, fantastiche, meramente spettacolari. Se il film Ladri di biciclette, in quanto pellicola neorealista, è affine alla prima pratica discorsiva, il film Ladri di saponette di Maurizio Nichetti può a buon titolo inserirsi in una posizione mediana, ovvero a metà strada fra un linguaggio pedissequamente affine al reale (neorealista) ed un linguaggio artificioso, spettacolare, in alcuni momenti persino autoreferenziale e metacomunicativo. Possiamo perciò affermare che la pellicola di Nichetti, lungi dall'essere paragonabile agli stilemi neorealisti, si ritrova ad essere contagiata da elementi di questo movimento cinematografico, essa è infarcita di rimandi, suggerimenti, indizi a tal punto che possiamo a buon titolo parlare di contaminazione neorealista. Il discorso è assai complesso ma cercherò di semplificarlo e sintetizzarlo il più possibile, cercando di non comprometterne la comprensione.

Dobbiamo primariamente partire da un presupposto puramente temporale: la pellicola di Nichetti è datata 1989 mentre quella di De Sica risale al 1948, perciò questa abissale differenza testimonia sin da subito le naturali difformità stilistiche e contenutistiche che contraddistinguono questi film. Non vi possono perciò essere affinità di alcuna sorta fra di esse, proprio in virtù dell'abisso temporale che non può non rendere i due film assai diversi fra loro; possiamo invero riconoscere nel film di Nichetti, come poc'anzi anticipato, una contaminazione neorealista, ovvero un'approssimazione stilistica a questo movimento filmico: Ladri di saponette ricalca, solo in parte e solo nei primi istanti del film, la pellicola di De Sica, sia nei nomi dei personaggi principali e sia nella narrazione della storia. Nichetti epigono di De Sica? Imitatore senza fantasia? Non esattamente, pur essendo questo pensiero più che legittimo. Il discorso è in verità molto più complesso poiché l'intento di Nichetti non è quello di rievocare il movimento neorealista con una pellicola che ne ricalca i tratti distintivi, bensì la volontà di ricorrere a questo filone discorsivo con lo scopo di costruirvi sopra un secondo linguaggio, un discorso diverso, contemporaneo, commerciale, che va ad aggiungersi a quello neorealista. Ecco perciò che il ricorso agli stilemi neorealisti è solo un pretesto per dare vita ad una riflessione ben più ampia su altri tipi di linguaggi: quindi, come più volte ho sottolineato, la pellicola in questione realizza un metadiscorso, ovvero cerca di comunicare un'idea sul cinema utilizzando un movimento cinematografico. Il film parla del suo stesso mondo così come, allo stesso tempo, esso è pure autoreferenziale, poiché pregno di autocitazioni ed autoriferimenti. Abbiamo perciò un discorso sul discorso di un discorso. Questo apparente virtuosismo pleonastico è invece il discorso o, meglio, il meta-discorso, che Nichetti imbastisce nella realizzazione del suo film e che possiamo sinteticamente così riassumere:
A. discorso afferente al filone neorealista, con il richiamo al film di De Sica nelle prime sequenze del film;
B. discorso relativo alla critica, tramite l'aggancio neorealista, al rapporto fra cinema, televisione commerciale e pubblicità;
C. discorso inerente all'autoreferenzialità da parte del regista che si autocita nella pellicola e che rimanda a suoi precedenti discorsi filmici.

Diviene ora opportuno accennare brevemente alla trama del film di Nichetti: il regista stesso, autore del film Ladri di saponette, viene invitato in uno studio televisivo di un programma che parla di cinema dove il critico Claudio G. Fava, che interpreta se stesso, presenta al pubblico il film con tanto di commento personale. Senza che il regista dica una parola, al termine della presentazione del critico parte la messa in onda del film che però viene continuamente interrotto dagli spazi pubblicitari che, secondo le proteste del regista, impediscono al pubblico di capirne appieno la trama. Ad un certo punto si verifica in studio un blackout, la corrente salta e tutto si ferma; ma al ritorno dell'energia elettrica accade l'impossibile: i personaggi delle pubblicità hanno invaso il film e, allo stesso modo, i protagonisti del film hanno contaminato le pubblicità, dando così vita ad una curiosa mescolanza di ruoli e di stili narrativi assai differenti. In tal modo cinema, televisione e pubblicità vengono fusi assieme e con loro i corrispettivi linguaggi discorsivi, con l'infelice risultato che la trama del film si ritrova inevitabilmente compromessa e le vicende non vanno come dovrebbero andare. Tutto si mescola, nessun discorso funziona come dovrebbe funzionare, i personaggi passano da un mondo all'altro, da una sceneggiatura all'altra, sfilacciando così una pratica narrativa inizialmente lineare e coesa. Ma, contemporaneamente, l'impostazione narrativa di Nichetti si concentra anche su di un altro contesto, quello di una famiglia intenta a guardare la televisione in salotto e che vive ogni istante performante e deformante del film, dalla sua messa in onda inizialmente lineare e coerente sino alla segmentazione della trama. Anche in questo caso ritengo opportuno, per meglio comprenderne l'impostazione, suddividere il film in tre sezioni narrative, corrispondenti ad altrettanti tempi, luoghi e attanti così definiti:
  • sezione narrativa 1: è rappresentata da quello che possiamo definire il mondo reale, ovvero il tempo e il luogo iniziali del film dove si situano lo studio televisivo e i personaggi di Nichetti regista, del critico Claudio G. Fava e dei vari assistenti e tecnici di studio. Possiamo inserirvi inoltre anche il salotto della famiglia di telespettatori poiché, seppur ubicati in un ambiente differente, sono comunque calati nel mondo reale. Questa prima sezione narrativa combacia con l'inizio del film, perciò viene naturale supporre che sia questo il contesto principale della storia, poiché tutte le vicende successive hanno luogo da esso;
  • sezione narrativa 2: è quella relativa alla messa in onda del film Ladri di saponette: trattandosi di un metadiscorso, dal contesto del mondo reale se ne dipana un altro, quello del film recensito dal critico Fava in studio. Perciò, durante la visione del film Ladri di saponette avviene una messa in onda (a partire dal medesimo contesto) di un altro film avente il medesimo titolo del precedente. In altre parole, il vero titolo della pellicola si riferisce al film messo in onda nella pellicola stessa: Ladri di saponette è sia il film che io spettatore mi sto guardando in questo momento ma è anche (e soprattutto) il film di cui si parla all'interno della pellicola;
  • sezione narrativa 3: è quella inerente la pubblicità che, con insistenza, continua persistentemente ad interrompere la messa in onda del film (nel film) compromettendone la comprensione da parte del pubblico. Sospendendo momentaneamente ed improvvisamente il film, si passa con repentina celerità da un discorso narrativo all'altro, dal film alla pubblicità. Il distacco è particolarmente netto poiché se il discorso filmico abbisogna di tempi e tecniche opportuni per adempiere al suo linguaggio ed alla trama, il discorso pubblicitario ne risulta totalmente differente, presentandosi invece assai veloce, tempestivo, rapido, fulmineo. Il film ha bisogno di tempo per farsi capire e perciò necessità di un linguaggio ricercato; la pubblicità è invece di durata incredibilmente più breve e quindi più risulta di semplice approccio e più sarà incisiva per gli spettatori.
Questi continui passaggi da un contesto ad un altro sono semioticamente definiti operazioni enunciazionali e fanno prevalentemente riferimento all'aspetto temporale, già ampiamente ricordato nel corso della nostra trattazione. Queste difformità temporali ci inducono a suddividere il tempo del discorso in due parti, una definita embrayage, in riferimento all'io-qui-ora dell'istanza dell'enunciazione ed individuabile nel nostro caso nello studio televisivo e nel salotto della famiglia, ovvero quello che abbiamo definito “mondo reale”. Da questa prima aspettualizzazione temporale se ne dipana una seconda, definita débrayage, ovvero la proiezione di tempi, spazi e attanti diversi dall'istanza dell'enunciazione: nel nostro caso, il débrayage lo si rintraccia sia nella messa in onda del film nel film e sia negli stacchi pubblicitari, fulminei ed improvvisi. L'aspetto curioso di questo film di Nichetti risiede nel fatto che al débrayage relativo alla messa in onda del film non corrisponde l'embrayage del mondo reale ma si passa direttamente ad un secondo débrayage, quello pubblicitario: solo quando anche quest'ultima digressione temporale è compiuta allora si ritorna all'istanza dell'enunciazione. In definitiva, Nichetti allestisce una girandola di embrayage e di débrayage, di continui via vai enunciazionali, di perpetue uscite ed altrettanti rientri temporali in un gioco a dir poco funambolico e confusionario dal punto di vista tecnico tale da arrecare danno alla trama stessa del film, la quale si ritrova contaminata di attanti afferenti a tutti e tre i contesti discorsivi.

Oltre a presentare un costrutto discorsivo e narrativo peculiare, il film di Nichetti risulta anche autoreferenziale, ovvero il regista si autocita nella sua stessa opera: infatti, il protagonista del mondo reale è Nichetti regista, così come il critico cinematografico presente in studio, Claudio G. Fava, è effettivamente un vero critico, impersonando quindi se stesso; possiamo inoltre rintracciare in tutta la pellicola altri rimandi e riferimenti a precedenti opere di Nichetti, come ad esempio la famiglia di telespettatori che è la stessa vista nel film Ho fatto splash del 1980 e, sempre dello stesso film, è anche il recupero di una pubblicità fasulla di una bevanda, il cui motivetto viene riutilizzato in Ladri di saponette. Questi perpetui rimandi, come abbiamo già avuto modo di testimoniare, evidenziano il carattere autoreferenziale che il regista ha deciso di donare alla pellicola, senza perciò distanziarsi da quell'impostazione a metà strada fra un linguaggio legato al reale ed un linguaggio da esso (quasi) slegato. Ma le citazioni che Nichetti inserisce nel film non si limitano a se stesso ed alle sue precedenti opere giacché si rivolgono anche alla pellicola di De Sica dalla quale, come detto, riprende i nomi dei protagonisti (Antonio, il padre, Maria, la madre, e Bruno, il figlioletto) così come rievoca in maniera più o meno fedele alcune scene di Ladri di biciclette, in particolare due: la sequenza iniziale è pressoché identica a quella del film di De Sica, ovvero quando un impiegato dell'ufficio di collocamento chiama ad alta voce i nomi dei “fortunati” ai quali è stato assegnato un lavoro; mentre la seconda sequenza richiamata da Nichetti si riferisce al dialogo avuto fra Antonio e un ufficiale di polizia al momento della denuncia. In entrambe le scene Nichetti riporta quasi fedelmente non solo i personaggi ma anche le battute. Vi è però una sostanziale differenza formale nell'opera di Nichetti: mentre De Sica consente al protagonista di godere, almeno inizialmente, di una certa dose di serenità grazie al lavoro appena trovato ed alla bicicletta acquistata con fatica, Nichetti dona alsuo Antonio un senso di frustrazione derivante dall'impossibilità di trovare lavoro, testimoniato dalle inquadrature che ci mostrano Nichetti/Antonio vagabondare da un posto all'altro questuando un lavoro ma ogni qualvolta esso viene respinto. Ad entrambi i protagonisti viene tolto e concesso qualcosa, in modo quasi speculare:
  • Antonio di De Sica inizialmente non possiede una bicicletta e neppure un lavoro, mentre Antonio/Nichetti possiede già una bicicletta ma non un lavoro;
  • successivamente, Antonio di De Sica si ritrova privo di bicicletta ma con ancora il lavoro mentre Antonio/Nichetti si ritrova senza lavoro ma con ancora la bici;
  • infine, Antonio di De Sica non riesce nell'intento di ritrovare la sua bici, pur mantenendo il lavoro, mentre Antonio/Nichetti non solo non perde mai la bici ma ottiene addirittura dei beni di consumo e cibi vari non guadagnati grazie al lavoro ma ottenuti tramite la contaminazione “magica” del mondo pubblicitario nel film.
Queste continue relazioni di congiunzione e disgiunzione dagli Oggetti di valore (Ov) ci consentono di individuare i Programmi Narrativi (PN) dei personaggi i quali, come abbiamo appena visto, cambiano di continuo:
  • Antonio di De Sica sente la necessità di rendere la propria vita più dignitosa, per sé e per la propria famiglia (PN principale), ma per fare ciò deve ottenere un lavoro che gli consenta di raggiungere tale obiettivo (PN d'uso). La bicicletta gli torna utile, per non dire essenziale, al fine di garantirsi l'occupazione, perciò tale mezzo diviene l'Ov dell'attante;
  • Antonio/Nichetti persegue il medesimo obiettivo di Antonio di De Sica, sia per quanto riguarda il PN principale e sia per quanto riguarda il PN d'uso. Il ruolo che precedentemente era svolto dalla bicicletta ora viene svolto dalla moglie Maria, la quale si ritroverà coinvolta nell'immaginario mondo a colori delle pubblicità ed indurrà Antonio/Nichetti a cercarla disperatamente. Perciò, Maria diviene l'Ov del film di Nichetti, essendo essa l'elemento di giunzione e di coesione della famiglia. Inoltre, nell'opera di Nichetti possiamo individuare un secondo Ov, rappresentato dal lampadario di vetro tanto desiderato dalla moglie Maria. Tale Ov assume un significato non tanto per Antonio/Nichetti, che vede in esso l'ennesimo PN d'uso utile alla serenità famigliare, quanto per Maria stessa, che investe questo oggetto di una valorizzazione puramente personale.
In entrambi i film, inoltre, è presente un attante che svolge il ruolo di aiutante, impersonato dal figlioletto Bruno: tale personaggio è talmente simile nelle due pellicole, tanto nella figura quanto nel nome, da indurci a ritenerlo un attante duale; tuttavia, occorre sottolineare che tale attante duale si riferisce a personaggi appartenenti ad opere diverse, perciò questa valorizzazione si ascrive solamente al personaggio in quanto ruolo narrativo e non al personaggio in quanto attore. Invece, possiamo a buon titolo parlare di attante duale in riferimento a Nichetti, il quale nel medesimo percorso narrativo svolge sia il ruolo di regista del film e sia il ruolo di Antonio.

Infine, per concludere il discorso sugli attanti, in questa pellicola sembra apparentemente omessa la figura dell'antagonista, ovvero di quell'attante che persegue un PN contrario a quello del Soggetto. Ebbene, pur non rintracciando nella pellicola di Nichetti un personaggio investito di tale ruolo, possiamo desumere che l'Antisoggetto sia impersonato proprio dagli stessi spot pubblicitari: infatti, mentre Nichetti/regista persegue come PN principale l'esigenza di vedere il suo film mandato in onda per intero e senza distorsioni della trama, le interruzioni pubblicitarie perseguono l'esatto contrario, ovvero non fanno altro che interrompere la messa in onda del film sino a contaminarne la trama e l'intreccio. La fine del film sembra però non lasciare spazio ai dubbi: le pubblicità infatti sembrano avere irrimediabilmente compromesso l'intera struttura narrativa del film nel film poiché non ci viene concesso di sapere né se Nichetti/regista riuscirà ad uscire dal suo film, né se i personaggi delle pubblicità se ne ritorneranno nel loro mondo immaginifico, né se la moglie Maria resterà ancora insieme al marito o se lo lascerà per una carriera nel mondo dello spettacolo. In certo qual modo questo finale richiama il senso di smarrimento ed angoscia che suggerisce il film di De Sica, giacché Antonio e il figlio Bruno non riescono a ritrovare la bicicletta rubata.

Ma alla funzione narrativa Nichetti affianca anche un'aspra critica al cinema ed alla televisione, in una duplice relazione di complice colpevolezza: l'una è stata in grado di incidere sul discorso filmico a tal punto da spezzettarne le trame con i continui spot pubblicitari, pregiudicandone la comprensione e rischiando di allontanare il pubblico dalla visione del film; l'altro non è stato in grado di impedire questo prepotente controllo televisivo, dimostrandosi incapace di escogitare delle adeguate difese per preservare la propria dignità artistica. Ed ecco allora che la succitata contaminazione neorealista si viene a spiegare non solo come pretesto per la costruzione di un discorso sul discorso, ma serve soprattutto da contrafforte alla pesante critica avanzata da Nichetti che con l'emulazione dei nomi dei personaggi e delle prime vicende della pellicola, del tutto simili a quelle di Ladri di biciclette, vuole sia richiamare alla memoria dello spettatore i bei tempi che furono, i tempi gloriosi del cinema italiano, quando il neorealismo faceva scuola a livello internazionale, e sia rammentare allo spettatore come le condizioni odierne del cinema siano così peggiorate, a tal punto da piegarsi alle volontà e necessità delle logiche televisive. Se il cinema è un'arte, e se il film Ladri di biciclette viene unanimemente ritenuto un capolavoro (perciò un'opera d'arte) del neorealismo, com'è allora possibile che tale opera possa essere spezzettata, sezionata in porzioni dalla televisione al solo scopo di mandare in onda fugaci spot pubblicitari? Come possono l'estetica pubblicitaria, l'estetica del consumo, l'estetica dell'immagine prevale sulle opere d'arte e sulla loro fruizione? È perciò questa la direzione del cinema italiano? La segmentazione del prodotto filmico per fasce di audience, esattamente come avviene per qualsivoglia prodotto commerciale? Si è arrivati al punto in cui un film deve piacere ancora prima di suscitare riflessioni sui suoi contenuti?
Queste domande sono probabilmente destinate a restare senza risposta, ma se anche vi fossero delle risposte sarebbe purtroppo tutte affermative. Ammetto che questi interrogativi possono risultare pressoché stucchevoli e a loro volta provocatori ma ritengo che, al di la del sofisma di questi quesiti, la critica di Nichetti risulti sufficientemente chiara ed esplicita.

Ladri di saponette - Premessa

Affrontiamo ora un tema particolarmente interessante, sotto due aspetti: sia per quanto concerne il carattere meramente contenutistico e sia per quello che riguarda il carattere discorsivo. Nel trattare questa tematica, che in certo qual modo si dipana attraverso due livelli narrativi e stilistici, non si può non accennare all'importanza precipua della temporalità, almeno dal punto di vista della discorsività: l'utilizzo dell'elemento-tempo nei diversi linguaggi in cui può esprimersi un racconto ricopre una centralità imprescindibile, sia perché di esso non se ne può fare a meno (le nostre stesse vite inserite nella quotidianità scorrono sui binari del tempo) e sia perché nell'imbastire una narrazione si vivifica quel concetto di schizìa creatrice, dando i natali a mondi e personaggi altri, diversi dalla realtà, talora invero simulacri di personaggi realmente esistenti. Perciò, il discorso-tempo diviene di primaria importanza qualora ci si ritrova ad affrontare tematiche relative a narrazioni di qualsiasi sorta, tenendo bene a mente che il linguaggio discorsivo risulta talvolta nettamente slegato dalla realtà e sovente strettamente connesso (o inter-connesso) alla realtà, spaziando in quest'ultimo caso nell'ampio filone della metacomunicazione e dell'autoreferenzialità.

Come avrò modo di evidenziare in seguito, il nostro discorso tende a considerare entrambi gli aspetti, attingendo sia da quella narrazione completamente slegata dai referenti reali e sia da quei sistemi narrativi connessi col reale. Per meglio comprendere ciò che si andrà ad esplicare, è opportuno illustrare questa doppia articolazione, incentrata sul sistema narrativo e discorsivo del cinema e che prende in esame due pellicole-simbolo, entrambe assai rilevanti in merito agli aspetti sopraccitati (contenuto/discorso).

La prima pellicola cui mi riferisco è Ladri di biciclette, uno tra i film più rappresentativi di quel movimento neorealista italiano che nel cinema del dopoguerra ha tanto prosperato sia nella cultura italica che nell'industria di settore. Ladri di biciclette esprime ottimamente gli stilemi fondamentali di questo movimento cinematografico, a cominciare proprio dai contenuti stessi della pellicola, inerenti in particolar modo alle condizioni di disagio della popolazione italiana negli anni del dopoguerra, una situazione aggravata sia dalla desolazione del paesaggio urbano deturpato dai bombardamenti e sia dalle estreme difficoltà che si incontravano nella ricerca e nell'ottenimento di un lavoro. Ma nella narrazione del disagio sociale vi si poteva anche scorgere la volontà di riscatto, l'esigenza di ricominciare e di attribuire dignità alla propria condizione di indigenza. Questa pellicola sottolinea appieno tali aspetti e pone anche l'accento, come suggerisce il titolo stesso, all'importanza utilitaristica di un mezzo di locomozione come la bicicletta, spesso ritenuto un mezzo di trasporto debole, ultra economico o affatto funzionale per le frenetiche esigenze di mobilità del lavoratore contemporaneo. Negli anni dell'immediato dopoguerra diveniva invece difficile persino raccattare un mezzo così infimo come una misera bicicletta, misero ma invero di grande importanza poiché, esattamente come evidenziano i dialoghi del film, se il protagonista Antonio non si fosse presentato il mattino successivo munito di bici il lavoro l'avrebbe perduto e sarebbe stato affidato a qualcun altro. Se prima Antonio, insieme alla moglie Maria, riesce ad acquistare un velocipede racimolando qualche soldo, in seguito egli si ritroverà privato del mezzo per via di un furto perpetrato da un mariuolo, destinando il povero protagonista ad una disperata quanto vitale ricerca del mezzo per le strade di Roma. La pellicola è altresì costellata di altri elementi neorealisti, come il degrado urbano, le faziosità fra cittadini anch'essi indigenti, l'uso perpetuo del parlato romanesco che dona alla narrazione una forte prossimità culturale e territoriale, così come riesce allo stesso tempo ad esaltare proprio la condizione di disagio sociale, testimoniata da una bassa cultura e da una scolarizzazione pressoché assente. Il dialetto è così il solo modo che i poveretti conoscono per comunicare e per farsi capire, è il sistema più immediato per relazionarsi e proprio per questo il più povero, il più misero, perché non derivante da processi di scolarizzazione e di insegnamento, ma il risultato delle naturali pratiche sociali e culturali, elementi endemici di qualsivoglia territorio o regione del mondo.

Per quanto riguarda invece la mera tecnica filmica, il film di De Sica poggia le sue basi sul ruolo che Cesare Zavattini assegnava alla macchina da presa, la quale doveva essere impiegata per quella pratica di “pedinamento del reale”, dove l'attore stracciava (metaforicamente) il copione e dove l'occhio della cinepresa si concentrava sullo spettacolo della quotidianità, riuscendo a cogliere i numerosi aspetti del reale, accantonando ogni artificio visivo o sensazionalismo scenico. L'attore veniva perciò ripreso da vicino, ai continui primi piani si alternano inquadrature panoramiche che seguono i personaggi in ogni loro azione, permettendo così di focalizzare l'attenzione dello spettatore proprio sulla quotidianità della vita, sulla naturalezza delle azioni, dei movimenti, senza evitare di accantonare i momenti morti ma, al contrario, enfatizzando le pause dei dialoghi e la lentezza degli avvenimenti, il tutto a servizio del solo perseguimento dell'obiettivo cardine del pensiero di Zavattini, ovvero non l'enfatizzazione del reale ma, al contrario, mostrare la realtà così come appare, penetrare nell'ordinario per coglierne l'essenza. In questo modo lo spettatore assiste a una narrazione che potremmo definire “in tempo reale” tanto la telecamera resta incollata ai personaggi; questo assunto del pedinamento del reale può essere esplicato in termini semiotici con il concetto dell'aspettualizzazione temporale di tipo durativo, poiché si assiste agli eventi nel loro dispiegarsi, ovvero nell'istante stesso in cui accadono, senza ulteriori digressioni spazio-temporali. Perciò, ritornando alla dicotomia avanzata poc'anzi fra i linguaggi legati e non legati alla realtà, con questa pellicola ci ritroviamo d'innanzi ad un chiaro esempio di discorso strettamente connesso con il reale, talmente connesso da accentuarne in maniera quasi estrema la naturalezza, l'intima normalità, svincolandosi da qualsivoglia pratica spettacolare per mettere in luce invece la purezza della realtà così come appare, senza artifici o quant'altro.
Riscontriamo perciò nella pellicola di De Sica numerosi aspetti del cinema neorealista, sfortunatamente l'unico vero movimento cinematografico italiano che ha saputo lasciare il segno nella cultura del nostro paese e che ha inevitabilmente contaminato una sequela di registi appartenenti alle nuove generazioni, così come è stato in grado di imporsi all'attenzione della cinematografia mondiale. Sottolineo l'importanza di questo movimento, e lo considero tale, se non altro perché è davvero l'unico modo, l'unica maniera, di fare cinema che ha saputo contraddistinguersi ed imporsi con prepotenza negli anni del dopoguerra, parallelamente al fatto, non meno autorevole, che di questo movimento vi si possono individuare elementi e stilemi che in altri presunti movimenti cinematografici invece non appaiono: per avvalersi perciò del titolo di “movimento” è fondamentale dotarsi di un apparato non soltanto contenutistico, ma anche (e soprattutto) discorsivo e tecnico.


Ma, a latere di ciò, sovente capita di imbattersi in piacevoli pellicole che a buon titolo possono definirsi originali, se non altro perché possiedono il buon senso di non appartenere a quella numerosa babele di epigoni del neorealismo che altro non fanno che ripetere, del tutto o in parte, racconti e storie già narrati; purtuttavia, anche se investiti di originalità, questi film non sono ascrivibili a nessun movimento in particolare e perciò debbono essere trattati singolarmente. Il caso che prenderò in esame, e che riguarda perciò la seconda pellicola della nostra trattazione, si riferisce ad un autore italiano assai peculiare, regista di numerosi film di successo, affatto commerciali ma non per questo poco conosciuti. Si tratta di Maurizio Nichetti, regista molto attivo dai primi anni '80 sino alla metà degli anni '90: nella sua carriera di cineasta Nichetti ha regalato al pubblico delle piccole perle di cinematografia italiana, lavori “artigianali” ma pregni di significati e valorizzazioni assai interessanti. Per il nostro discorso, ci torna utile parlare del film Ladri di saponette del 1989 il quale, a discapito del titolo che può suggerire una parodia o una farsa del film di De Sica, offre invece originali spunti di riflessione sui rapporti fra cinema, televisione e pubblicità, quest'ultima a buon titolo la vera isotopia della pellicola. Ma Ladri di saponette non è solo un metadiscorso sui linguaggi dell'audiovisivo: essa è anche una sferzante critica sul cinema italiano, in particolare su quel tipo di cinema commerciale che da quegli anni cominciava ad affiancarsi alle prime televisioni private, infarcite di pubblicità, che da quel momento in avanti hanno inevitabilmente compromesso la messa in onda dei film in televisione. Il film di Nichetti gode perciò di un ottimo soggetto e, se da principio il piano narrativo della pellicola sembra ricalcare nelle battute e nei personaggi Ladri di biciclette, nel prosieguo della storia si scopre che il piano discorsivo è invece assai ricco di artifici, trucchi e trovate sceniche davvero memorabili. Ma per una più completa trattazione di questa pellicola si rimanda a questo post.