lunedì 15 luglio 2013

Ladri di saponette - Premessa

Affrontiamo ora un tema particolarmente interessante, sotto due aspetti: sia per quanto concerne il carattere meramente contenutistico e sia per quello che riguarda il carattere discorsivo. Nel trattare questa tematica, che in certo qual modo si dipana attraverso due livelli narrativi e stilistici, non si può non accennare all'importanza precipua della temporalità, almeno dal punto di vista della discorsività: l'utilizzo dell'elemento-tempo nei diversi linguaggi in cui può esprimersi un racconto ricopre una centralità imprescindibile, sia perché di esso non se ne può fare a meno (le nostre stesse vite inserite nella quotidianità scorrono sui binari del tempo) e sia perché nell'imbastire una narrazione si vivifica quel concetto di schizìa creatrice, dando i natali a mondi e personaggi altri, diversi dalla realtà, talora invero simulacri di personaggi realmente esistenti. Perciò, il discorso-tempo diviene di primaria importanza qualora ci si ritrova ad affrontare tematiche relative a narrazioni di qualsiasi sorta, tenendo bene a mente che il linguaggio discorsivo risulta talvolta nettamente slegato dalla realtà e sovente strettamente connesso (o inter-connesso) alla realtà, spaziando in quest'ultimo caso nell'ampio filone della metacomunicazione e dell'autoreferenzialità.

Come avrò modo di evidenziare in seguito, il nostro discorso tende a considerare entrambi gli aspetti, attingendo sia da quella narrazione completamente slegata dai referenti reali e sia da quei sistemi narrativi connessi col reale. Per meglio comprendere ciò che si andrà ad esplicare, è opportuno illustrare questa doppia articolazione, incentrata sul sistema narrativo e discorsivo del cinema e che prende in esame due pellicole-simbolo, entrambe assai rilevanti in merito agli aspetti sopraccitati (contenuto/discorso).

La prima pellicola cui mi riferisco è Ladri di biciclette, uno tra i film più rappresentativi di quel movimento neorealista italiano che nel cinema del dopoguerra ha tanto prosperato sia nella cultura italica che nell'industria di settore. Ladri di biciclette esprime ottimamente gli stilemi fondamentali di questo movimento cinematografico, a cominciare proprio dai contenuti stessi della pellicola, inerenti in particolar modo alle condizioni di disagio della popolazione italiana negli anni del dopoguerra, una situazione aggravata sia dalla desolazione del paesaggio urbano deturpato dai bombardamenti e sia dalle estreme difficoltà che si incontravano nella ricerca e nell'ottenimento di un lavoro. Ma nella narrazione del disagio sociale vi si poteva anche scorgere la volontà di riscatto, l'esigenza di ricominciare e di attribuire dignità alla propria condizione di indigenza. Questa pellicola sottolinea appieno tali aspetti e pone anche l'accento, come suggerisce il titolo stesso, all'importanza utilitaristica di un mezzo di locomozione come la bicicletta, spesso ritenuto un mezzo di trasporto debole, ultra economico o affatto funzionale per le frenetiche esigenze di mobilità del lavoratore contemporaneo. Negli anni dell'immediato dopoguerra diveniva invece difficile persino raccattare un mezzo così infimo come una misera bicicletta, misero ma invero di grande importanza poiché, esattamente come evidenziano i dialoghi del film, se il protagonista Antonio non si fosse presentato il mattino successivo munito di bici il lavoro l'avrebbe perduto e sarebbe stato affidato a qualcun altro. Se prima Antonio, insieme alla moglie Maria, riesce ad acquistare un velocipede racimolando qualche soldo, in seguito egli si ritroverà privato del mezzo per via di un furto perpetrato da un mariuolo, destinando il povero protagonista ad una disperata quanto vitale ricerca del mezzo per le strade di Roma. La pellicola è altresì costellata di altri elementi neorealisti, come il degrado urbano, le faziosità fra cittadini anch'essi indigenti, l'uso perpetuo del parlato romanesco che dona alla narrazione una forte prossimità culturale e territoriale, così come riesce allo stesso tempo ad esaltare proprio la condizione di disagio sociale, testimoniata da una bassa cultura e da una scolarizzazione pressoché assente. Il dialetto è così il solo modo che i poveretti conoscono per comunicare e per farsi capire, è il sistema più immediato per relazionarsi e proprio per questo il più povero, il più misero, perché non derivante da processi di scolarizzazione e di insegnamento, ma il risultato delle naturali pratiche sociali e culturali, elementi endemici di qualsivoglia territorio o regione del mondo.

Per quanto riguarda invece la mera tecnica filmica, il film di De Sica poggia le sue basi sul ruolo che Cesare Zavattini assegnava alla macchina da presa, la quale doveva essere impiegata per quella pratica di “pedinamento del reale”, dove l'attore stracciava (metaforicamente) il copione e dove l'occhio della cinepresa si concentrava sullo spettacolo della quotidianità, riuscendo a cogliere i numerosi aspetti del reale, accantonando ogni artificio visivo o sensazionalismo scenico. L'attore veniva perciò ripreso da vicino, ai continui primi piani si alternano inquadrature panoramiche che seguono i personaggi in ogni loro azione, permettendo così di focalizzare l'attenzione dello spettatore proprio sulla quotidianità della vita, sulla naturalezza delle azioni, dei movimenti, senza evitare di accantonare i momenti morti ma, al contrario, enfatizzando le pause dei dialoghi e la lentezza degli avvenimenti, il tutto a servizio del solo perseguimento dell'obiettivo cardine del pensiero di Zavattini, ovvero non l'enfatizzazione del reale ma, al contrario, mostrare la realtà così come appare, penetrare nell'ordinario per coglierne l'essenza. In questo modo lo spettatore assiste a una narrazione che potremmo definire “in tempo reale” tanto la telecamera resta incollata ai personaggi; questo assunto del pedinamento del reale può essere esplicato in termini semiotici con il concetto dell'aspettualizzazione temporale di tipo durativo, poiché si assiste agli eventi nel loro dispiegarsi, ovvero nell'istante stesso in cui accadono, senza ulteriori digressioni spazio-temporali. Perciò, ritornando alla dicotomia avanzata poc'anzi fra i linguaggi legati e non legati alla realtà, con questa pellicola ci ritroviamo d'innanzi ad un chiaro esempio di discorso strettamente connesso con il reale, talmente connesso da accentuarne in maniera quasi estrema la naturalezza, l'intima normalità, svincolandosi da qualsivoglia pratica spettacolare per mettere in luce invece la purezza della realtà così come appare, senza artifici o quant'altro.
Riscontriamo perciò nella pellicola di De Sica numerosi aspetti del cinema neorealista, sfortunatamente l'unico vero movimento cinematografico italiano che ha saputo lasciare il segno nella cultura del nostro paese e che ha inevitabilmente contaminato una sequela di registi appartenenti alle nuove generazioni, così come è stato in grado di imporsi all'attenzione della cinematografia mondiale. Sottolineo l'importanza di questo movimento, e lo considero tale, se non altro perché è davvero l'unico modo, l'unica maniera, di fare cinema che ha saputo contraddistinguersi ed imporsi con prepotenza negli anni del dopoguerra, parallelamente al fatto, non meno autorevole, che di questo movimento vi si possono individuare elementi e stilemi che in altri presunti movimenti cinematografici invece non appaiono: per avvalersi perciò del titolo di “movimento” è fondamentale dotarsi di un apparato non soltanto contenutistico, ma anche (e soprattutto) discorsivo e tecnico.


Ma, a latere di ciò, sovente capita di imbattersi in piacevoli pellicole che a buon titolo possono definirsi originali, se non altro perché possiedono il buon senso di non appartenere a quella numerosa babele di epigoni del neorealismo che altro non fanno che ripetere, del tutto o in parte, racconti e storie già narrati; purtuttavia, anche se investiti di originalità, questi film non sono ascrivibili a nessun movimento in particolare e perciò debbono essere trattati singolarmente. Il caso che prenderò in esame, e che riguarda perciò la seconda pellicola della nostra trattazione, si riferisce ad un autore italiano assai peculiare, regista di numerosi film di successo, affatto commerciali ma non per questo poco conosciuti. Si tratta di Maurizio Nichetti, regista molto attivo dai primi anni '80 sino alla metà degli anni '90: nella sua carriera di cineasta Nichetti ha regalato al pubblico delle piccole perle di cinematografia italiana, lavori “artigianali” ma pregni di significati e valorizzazioni assai interessanti. Per il nostro discorso, ci torna utile parlare del film Ladri di saponette del 1989 il quale, a discapito del titolo che può suggerire una parodia o una farsa del film di De Sica, offre invece originali spunti di riflessione sui rapporti fra cinema, televisione e pubblicità, quest'ultima a buon titolo la vera isotopia della pellicola. Ma Ladri di saponette non è solo un metadiscorso sui linguaggi dell'audiovisivo: essa è anche una sferzante critica sul cinema italiano, in particolare su quel tipo di cinema commerciale che da quegli anni cominciava ad affiancarsi alle prime televisioni private, infarcite di pubblicità, che da quel momento in avanti hanno inevitabilmente compromesso la messa in onda dei film in televisione. Il film di Nichetti gode perciò di un ottimo soggetto e, se da principio il piano narrativo della pellicola sembra ricalcare nelle battute e nei personaggi Ladri di biciclette, nel prosieguo della storia si scopre che il piano discorsivo è invece assai ricco di artifici, trucchi e trovate sceniche davvero memorabili. Ma per una più completa trattazione di questa pellicola si rimanda a questo post.

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