Affrontiamo ora un tema
particolarmente interessante, sotto due aspetti: sia per quanto
concerne il carattere meramente contenutistico e sia per
quello che riguarda il carattere discorsivo. Nel trattare
questa tematica, che in certo qual modo si dipana attraverso due
livelli narrativi e stilistici, non si può non accennare
all'importanza precipua della temporalità, almeno dal
punto di vista della discorsività: l'utilizzo dell'elemento-tempo
nei diversi linguaggi in cui può esprimersi un racconto ricopre una
centralità imprescindibile, sia perché di esso non se ne può fare
a meno (le nostre stesse vite inserite nella quotidianità scorrono
sui binari del tempo) e sia perché nell'imbastire una narrazione si
vivifica quel concetto di schizìa creatrice, dando i
natali a mondi e personaggi altri, diversi dalla realtà, talora
invero simulacri di personaggi realmente esistenti. Perciò, il
discorso-tempo diviene di primaria importanza qualora ci si ritrova
ad affrontare tematiche relative a narrazioni di qualsiasi sorta,
tenendo bene a mente che il linguaggio discorsivo risulta talvolta
nettamente slegato dalla realtà e sovente strettamente connesso (o
inter-connesso) alla realtà, spaziando in quest'ultimo caso
nell'ampio filone della metacomunicazione e dell'autoreferenzialità.
Come avrò modo di
evidenziare in seguito, il nostro discorso tende a considerare
entrambi gli aspetti, attingendo sia da quella narrazione
completamente slegata dai referenti reali e sia da quei sistemi
narrativi connessi col reale. Per meglio comprendere ciò che si
andrà ad esplicare, è opportuno illustrare questa doppia
articolazione, incentrata sul sistema narrativo e discorsivo del
cinema e che prende in esame due pellicole-simbolo, entrambe assai
rilevanti in merito agli aspetti sopraccitati (contenuto/discorso).
La prima pellicola cui mi
riferisco è Ladri di biciclette,
uno tra i film più rappresentativi di quel movimento neorealista
italiano che nel cinema del dopoguerra ha tanto prosperato sia nella
cultura italica che nell'industria di settore. Ladri di
biciclette esprime ottimamente
gli stilemi fondamentali di questo movimento cinematografico, a
cominciare proprio dai contenuti stessi della pellicola, inerenti in
particolar modo alle condizioni di disagio della popolazione italiana
negli anni del dopoguerra, una situazione aggravata sia dalla
desolazione del paesaggio urbano deturpato dai bombardamenti e sia
dalle estreme difficoltà che si incontravano nella ricerca e
nell'ottenimento di un lavoro. Ma nella narrazione del disagio
sociale vi si poteva anche scorgere la volontà di riscatto,
l'esigenza di ricominciare e di attribuire dignità alla propria
condizione di indigenza. Questa pellicola sottolinea appieno tali
aspetti e pone anche l'accento, come suggerisce il titolo stesso,
all'importanza utilitaristica di un mezzo di locomozione come la
bicicletta, spesso ritenuto un mezzo di trasporto debole, ultra
economico o affatto funzionale per le frenetiche esigenze di mobilità
del lavoratore contemporaneo. Negli anni dell'immediato dopoguerra
diveniva invece difficile persino raccattare un mezzo così infimo
come una misera bicicletta, misero ma invero di grande importanza
poiché, esattamente come evidenziano i dialoghi del film, se il
protagonista Antonio non si fosse presentato il mattino successivo
munito di bici il lavoro l'avrebbe perduto e sarebbe stato affidato a
qualcun altro. Se prima Antonio, insieme alla moglie Maria, riesce ad
acquistare un velocipede racimolando qualche soldo, in seguito egli
si ritroverà privato del mezzo per via di un furto perpetrato da un
mariuolo, destinando il povero protagonista ad una disperata quanto
vitale ricerca del mezzo per le strade di Roma. La pellicola è
altresì costellata di altri elementi neorealisti, come il degrado
urbano, le faziosità fra cittadini anch'essi indigenti, l'uso
perpetuo del parlato romanesco che dona alla narrazione una forte
prossimità culturale e territoriale, così come riesce allo stesso
tempo ad esaltare proprio la condizione di disagio sociale,
testimoniata da una bassa cultura e da una scolarizzazione pressoché
assente. Il dialetto è così il solo modo che i poveretti conoscono
per comunicare e per farsi capire, è il sistema più immediato per
relazionarsi e proprio per questo il più povero, il più misero,
perché non derivante da processi di scolarizzazione e di
insegnamento, ma il risultato delle naturali pratiche sociali e
culturali, elementi endemici di qualsivoglia territorio o regione del
mondo.
Per
quanto riguarda invece la mera tecnica filmica, il film di De Sica
poggia le sue basi sul ruolo che Cesare Zavattini assegnava alla
macchina da presa, la quale doveva essere impiegata per quella
pratica di “pedinamento del reale”, dove l'attore stracciava
(metaforicamente) il copione e dove l'occhio della cinepresa si
concentrava sullo spettacolo della quotidianità, riuscendo a
cogliere i numerosi aspetti del reale, accantonando ogni artificio
visivo o sensazionalismo scenico. L'attore veniva perciò ripreso da
vicino, ai continui primi piani si alternano inquadrature panoramiche
che seguono i personaggi in ogni loro azione, permettendo così di
focalizzare l'attenzione dello spettatore proprio sulla quotidianità
della vita, sulla naturalezza delle azioni, dei movimenti, senza
evitare di accantonare i momenti morti ma, al contrario, enfatizzando
le pause dei dialoghi e la lentezza degli avvenimenti, il tutto a
servizio del solo perseguimento dell'obiettivo cardine del pensiero
di Zavattini, ovvero non l'enfatizzazione del reale ma, al contrario,
mostrare la realtà così come appare, penetrare nell'ordinario per
coglierne l'essenza. In questo modo lo spettatore assiste a una
narrazione che potremmo definire “in tempo reale” tanto la
telecamera resta incollata ai personaggi; questo assunto del
pedinamento del reale può essere esplicato in termini semiotici con
il concetto dell'aspettualizzazione
temporale di tipo durativo,
poiché si assiste agli eventi nel loro dispiegarsi, ovvero
nell'istante stesso in cui accadono, senza ulteriori digressioni
spazio-temporali. Perciò, ritornando alla dicotomia avanzata
poc'anzi fra i linguaggi legati e non legati alla realtà, con questa
pellicola ci ritroviamo d'innanzi ad un chiaro esempio di discorso
strettamente connesso con il reale, talmente connesso da accentuarne
in maniera quasi estrema la naturalezza, l'intima normalità,
svincolandosi da qualsivoglia pratica spettacolare per mettere in
luce invece la purezza della realtà così come appare, senza
artifici o quant'altro.
Riscontriamo
perciò nella pellicola di De Sica numerosi aspetti del cinema
neorealista, sfortunatamente l'unico vero movimento cinematografico
italiano che ha saputo lasciare il segno nella cultura del nostro
paese e che ha inevitabilmente contaminato una sequela di registi
appartenenti alle nuove generazioni, così come è stato in grado di
imporsi all'attenzione della cinematografia mondiale. Sottolineo
l'importanza di questo movimento, e lo considero tale, se non altro
perché è davvero l'unico modo, l'unica maniera,
di fare cinema che ha saputo contraddistinguersi ed imporsi con
prepotenza negli anni del dopoguerra, parallelamente al fatto, non
meno autorevole, che di questo movimento vi si possono individuare
elementi e stilemi che in altri presunti movimenti cinematografici
invece non appaiono: per avvalersi perciò del titolo di “movimento”
è fondamentale dotarsi di un apparato non soltanto contenutistico,
ma anche (e soprattutto) discorsivo e tecnico.
Ma,
a latere di ciò, sovente capita di imbattersi in piacevoli pellicole
che a buon titolo possono definirsi originali, se non altro perché
possiedono il buon senso di non appartenere a quella numerosa babele
di epigoni del neorealismo che altro non fanno che ripetere, del
tutto o in parte, racconti e storie già narrati; purtuttavia, anche
se investiti di originalità, questi film non sono ascrivibili a
nessun movimento in particolare e perciò debbono essere trattati
singolarmente. Il caso che prenderò in esame, e che riguarda perciò
la seconda pellicola della nostra trattazione, si riferisce ad un
autore italiano assai peculiare, regista di numerosi film di
successo, affatto commerciali ma non per questo poco conosciuti. Si
tratta di Maurizio Nichetti, regista molto attivo dai primi anni '80
sino alla metà degli anni '90: nella sua carriera di cineasta
Nichetti ha regalato al pubblico delle piccole perle di
cinematografia italiana, lavori “artigianali” ma pregni di
significati e valorizzazioni assai interessanti. Per il nostro
discorso, ci torna utile parlare del film Ladri di
saponette del 1989 il quale, a
discapito del titolo che può suggerire una parodia o una farsa del
film di De Sica, offre invece originali spunti di riflessione sui
rapporti fra cinema, televisione e pubblicità, quest'ultima a buon
titolo la vera isotopia della pellicola. Ma Ladri di
saponette non è solo un
metadiscorso sui linguaggi dell'audiovisivo: essa è anche una
sferzante critica sul cinema italiano, in particolare su quel tipo di
cinema commerciale che da quegli anni cominciava ad affiancarsi alle
prime televisioni private, infarcite di pubblicità, che da quel
momento in avanti hanno inevitabilmente compromesso la messa in onda
dei film in televisione. Il film di Nichetti gode perciò di un
ottimo soggetto e, se da principio il piano narrativo della
pellicola sembra ricalcare nelle battute e nei personaggi Ladri
di biciclette, nel prosieguo
della storia si scopre che il piano discorsivo è invece assai ricco
di artifici, trucchi e trovate sceniche davvero memorabili. Ma per
una più completa trattazione di questa pellicola si rimanda a questo
post.
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