sabato 12 maggio 2012

Facebook: patologie digitali e categorie di utenti - Premessa


Vivendo in un'epoca pervasa da un sempre più dilagante e contagioso dominio digitale, diviene normale per non dire fondamentale la necessità di individuare concretamente il confine che separa la cosiddetta realtà fisica (o materiale) dalla nuova realtà virtuale, entrambe afferenti ai rispettivi universi: la prima legata al mondo fruibile direttamente da ogni individuo ed eventualmente in parte modificabile dalle proprie azioni concrete, la seconda relativa al mondo digitale della rete, divenuta ormai popolare e fondamentale sia per i diversi metodi di comunicazione da essa offerti e sia per i nuovi rapporti sociali che grazie ad essa si sono venuti a creare.A tal proposito diviene allora essenziale distinguere ciò che è reale da ciò che, ipoteticamente, non lo è. Siccome il significato di “realtà” è un concetto piuttosto fuggevole ed estremamente soggettivo, poiché ogni individuo lo interpreta a modo proprio e gli assegna un determinato valore sulla base delle proprie emozioni ed esperienze quotidiane, risulta quindi difficoltoso stabilire univocamente ciò che si ritiene essere reale in senso universalistico o gnoseologico. A fronte di questa difficoltà, possiamo allora tracciare un profilo chiaro ma al contempo opinabile di realtà: possiamo definire la realtà come la condizione grazie alla quale è possibile qualsivoglia forma di esistenza di un qualsiasi tipo di stimolo, materiale o immateriale.
Se prendiamo come ammissibile tale dichiarazione, ci è possibile ritenere reale anche (e soprattutto) ciò che è immateriale e non direttamente accessibile: del resto, tale processo inferenziale lo mettiamo quotidianamente in pratica ogni qualvolta siamo difronte ai personaggi narrati in un romanzo, oppure quando assistiamo alla trama di un film, o ancora quando ci cimentiamo nell'azione di un videogioco etc. Tutte queste situazioni, seppur non direttamente accessibili, non risultano meno vere (e quindi meno reali) di ciò che invece possiamo fisicamente toccare o sentire. Se ci rifiutassimo di assegnare un valore anche minimo di veridicità alla trama di un romanzo, non saremmo neppure capaci di sfogliare le pagine di un libro, così come saremmo restii a prendere per vera l'azione di un videogioco e così via. Ma è proprio in questa assegnazione di valore che risiede la nostra capacità di prendere per vero anche ciò che non possiamo fisicamente raggiungere e tale aspetto si è reso ancora più critico con l'imporsi della rete, ovvero di un mondo parallelo che non possiamo raggiungere e neppure individuare precisamente. Ci è possibile però distinguere dalla realtà virtuale ciò che è la sua infrastruttura tecnologica, ovvero l'insieme delle sue componenti tecniche, materiali e processuali che, effettivamente, ne garantiscono l'esistenza e il sostentamento.
Ma al di fuori di questa prospettiva più che concreta, il mondo virtuale della rete è rappresentato da un luogo vero e proprio, anzi da un non-luogo, ovvero un ambiente nel quale mancano le due componenti spazio-temporali necessarie al riconoscimento di un qualsiasi tipo di luogo. Infatti nella rete è assente:
  • lo spazio, poiché essa è priva di confini ben delimitabili, anzi ne è totalmente sprovvista. Non ci è possibile quindi stabilire dove essa cominci e dove finisce, quanto è estesa o profonda, così come non ci è possibile stabilire cosa vi sia oltre la rete, ammesso che vi sia effettivamente qualcosa;
  • il tempo, poiché nella rete non vi è una vera e propria scansione frattale degli istanti temporali, non è possibile riconoscere la successione dei momenti in cui è abitualmente suddivisa la realtà fisica nella forma degli anni, dei giorni e delle ore. Nella rete non vi è un futuro, giacché non risulta sensato procrastinare decisioni o azioni in un tempo altro, così come non è individuabile un passato, dato che ciò che è stato precedentemente archiviato può essere riportato alla luce, divenendo così ancora attuale. La rete è quindi permeata da un generico presente.
Alla luce di quanto detto finora, ovvero della mancanza di accessibilità diretta e dell'inesistenza del fattore spazio-temporale, diviene cruciale stabilire un metodo di accesso alla rete, ovvero della potenzialità da parte di un individuo di essere in grado di fruire dei servizi offerti dalla rete. È stato allora necessario dare vita ad una proiezione dell'uomo all'interno di essa, individuabile dapprima nei cosiddetti indirizzi e-mail, corrispondenti a dei veri e propri recapiti dotati di indirizzo e nominativo del mittente/possessore, e successivamente riscontrabile nei profili, che a tutt'oggi sono la versione più completa e più vicina possibile a quella dell'individuo in carne ed ossa.
Il profilo possiede un nome, tecnicamente corrispondente a quello reale del suo possessore, così come possiede una fotografia che ne raffigura il volto, ed è anche dotato di una serie di informazioni utili ad individuare e riconoscere i gusti e le attività personali di quel profilo, rendendolo perciò unico ed inimitabile al pari di ogni singolo individuo nella realtà fisica.
All'interno della rete i profili si incontrano e si scambiano informazioni al pari di quello che accade nel mondo materiale, e tali rapporti sociali si consumano nelle piazze o arene digitali, dei veri e propri luoghi di incontro e di socializzazione dove gli individui/profili si incontrano ed intrattengono rapporti conoscitivi. Queste piazze digitali possono corrispondere sia con i celeberrimi siti d'incontri, ovvero servizi utili alla ricerca di un determinato partner, oppure, più di recente, sono meglio identificabili con i famosi social network, che meglio adempiono nell'immaginario collettivo all'idea di luogo virtuale.
Parlando di rapporti sociali digitali, i profili danno vita a veri e propri comportamenti ed atteggiamenti assimilabili a quelli della realtà fisica e proprio per questo altrettanto riconoscibili, individuabili e, perché no, studiabili.
In questa sede, ho preso in prestito il termine di patologia per indicare i diversi tipi di rapporti sociali intrapresi dai profili nella rete. A tal proposito, ci tengo a sottolineare che il termine patologia non è da intendersi come malattia o infermità, ma piuttosto come insieme di condizioni anomale le quali si rivelano peculiari e totalmente distinguibili le une dalle altre e che, al pari della realtà fisica, possono portare a volte a comportamenti devianti o non conformi al senso comune. Ma, trattandosi di realtà virtuale, essa si discosta in parte dalla realtà fisica poiché possiede regole e leggi del tutto proprie.
Osservando l'utilizzo che gli individui fanno di Facebook, il social network indubbiamente più famoso e più interessante sotto il profilo sociologico, ho potuto riscontrare diversi comportamenti anomali o patologici che si vengono a creare piuttosto di frequente. Tali patologie afferiscono solo e soltanto alle arene digitali, niente e nessuno ci può dare la conferma dei medesimi comportamenti anche nella realtà fisica: un individuo A può dare prova di un comportamento x all'interno della realtà virtuale, così come può dare prova di un comportamento y al di fuori di essa. Lo stesso ragionamento vale per il caso contrario, ovvero quando vi può essere una corrispondenza del comportamento di A sia nella realtà fisica che in quella virtuale. Siccome il nostro discorso si consuma soltanto sul piano virtuale, dobbiamo necessariamente discostarci dall'ordinario e prendere per ordinario o, ancora meglio, come ammissibili e probabili fatti e accadimenti esclusivi del mondo virtuale. È del tutto normale, quindi, se un profilo visibile come “connesso” non risponde ad una comunicazione tramite chat, mentre la stessa cosa non può essere considerata ammissibile in una comunicazione faccia a faccia, nella quale una non risposta alla domanda di uno degli interlocutori facenti parte alla conversazione viene giustamente vista come anormale.
Principalmente, l'uso e il ricorso che gli utenti fanno di Facebook si attesta ad un'unica attività: la ricerca di una sempre maggiore ed ampia visibilità. Essa la si raggiunge essenzialmente tramite un'alta quantità di “amici” perseguibile sia da una massiccia mole di richieste d'amicizia pervenute ad un profilo oppure inviate dal profilo stesso ad una quantità indefinita di altri profili. Se tali richieste di amicizia vengono accettate (e spesso si presume che ciò accada) un profilo potrà così annoverare un alto numero di contatti, tutti potenziali seguaci delle diverse attività intraprese dal profilo stesso, le quali si traducono nella stesura di status (o post), ovvero di commenti ed idee personali sulla propria bacheca, oppure nel commento di post altrui, oppure nell'assegnazione dei “mi piace” ad altrettanti commenti o post degli amici. Le medesime attività si riscontrano anche da parte di tutti gli altri profili. Quanto più un'attività sarà commentata in ogni forma, tanto più ciò rivela un'assidua e costante attenzione alle azioni virtuali di un determinato profilo. La ricerca di visibilità, quindi, si riscontra proprio nella capacità di un dato utente di saper pubblicare e postare elementi che ritiene potranno essere interessanti e quindi molto seguiti dai rispettivi amici e, come abbiamo detto, la popolarità di un'azione, e conseguentemente del suo contenuto, la si riscontra nella quantità di attenzioni ad essa rivolte. Va sottolineato che la metodologia sulla quale è sorretto il sistema comunicativo di Facebook non consente l'espressione di disapprovazione diretta da parte di un utente il quale, per manifestare ciò, è in ogni caso costretto a lasciare un commento ad un'attività che giudica non condivisibile: l'attività medesima, anche se correlata da commenti negativi, avrà comunque ricevuto un'alta dose di attenzioni, che non è nient'altro che l'obiettivo principale di ogni profilo. Anche in questo senso, quindi, un utente avrà raggiunto il proprio scopo, indipendentemente dalla positività o negatività dei commenti degli amici.
La ricerca di visibilità porta con se due inevitabili considerazioni:
  • essa rappresenta l'unico modo che gli utenti hanno per dare una prova effettiva della loro esistenza sul social network, quindi essa si rivela essenziale per la permanenza di un profilo all'interno di un'arena digitale. Alla luce di ciò, indipendentemente dalla quantità di amici, una qualsiasi attività di un utente potrà dirsi seguita qualora riceva anche un solo commento od un solo “mi piace”. In caso contrario, ovvero qualora l'attività non venisse in alcun modo commentata, si dà per scontato che essa non sia stata letta da nessuno, quindi è come se l'utente si fosse rivolto al vento: niente e nessuno può dirci infatti se l'attività priva di commenti sia stata effettivamente trascurata perché non vista, oppure se essa sia stata deliberatamente ignorata di sana pianta da chicchessia. Fatto sta che essa non ha ricevuto commenti e quindi per il proprietario del profilo sta a significare che nessuno l'ha considerata, vanificando così le sue azioni nell'arena digitale utili a testimoniare la sua esistenza. È quindi importante che l'attività di un profilo venga presa in considerazione, senza porre limiti o problemi alla quantità delle attenzioni ricevute;
  • essa può assumere connotati preoccupanti qualora il profilo fosse costantemente alla ricerca di un'alta visibilità, la quale è preferibile che sia di più ampio gradimento e consenso possibile. Per fare ciò, un utente possiede solo una strada, ovverosia quella di pubblicare status e post con un contenuto alquanto discutibile per via del loro significato di qualità mediocre o scarso, ma che riceveranno (o avranno più probabilità di ricevere) una mole esorbitante di commenti e di “mi piace”, il tutto al solo scopo di andare ben al di la della semplice visibilità minima utile a garantire la permanenza di un profilo all'interno di un social network. Questa continua ricerca di ampi consensi rischia di tramutarsi in ossessione qualora le attività dell'utente degenerano in azioni degradanti o al limite del ridicolo ed in casi come questi l'unica spiegazione a livello psicologico che possa giustificare un simile atteggiamento risiede o nella carenza di attenzioni nell'ambito della realtà fisica del soggetto (quindi, in parole povere, nell'assenza di attenzioni nella sua vita di tutti i giorni) oppure testimoniano una scarsa o mancata dose di affetto ricevuta e/o percepita. In casi come questi, si ritiene che il soggetto compensi questi deficit tramite il raggiungimento di soddisfazioni virtuali che aumentino la loro autostima e rinfranchino i loro animi. È altresì vero che tali soggetti si possono ridurre alla pubblicazione di questi scarsi contenuti al solo fine di divenire popolari, ricevere elogi e/o complimenti per rinforzare così la loro presunta consapevolezza e certezza di essere in un qualche modo superiori alla massa, di avere una marcia in più e proprio un alto numero di adesioni e consensi agli elementi da loro pubblicati testimonia questa vocazione.
È proprio grazie a questo secondo punto di vista che ho potuto stilare le 6 categorie di profili che danno prova di comportamenti patologici, nell'accezione del termine indicata sopra. Ci tengo altresì a ricordare che questi comportamenti patologici possono non essere ritenuti tali qualora il reale comportamento di un soggetto assomigli del tutto o in parte a quello del rispettivo profilo; ma, siccome questa corrispondenza non può in alcun modo essere provata (così come è stato detto poco sopra a proposito del soggetto A e del suo comportamento x/y), non ci resta che considerare come necessariamente patologici tutti i comportamenti di seguito descritti. Qualora vi sarà la possibilità concreta di determinare una somiglianza, per non dire una coincidenza, fra un comportamento fisico ed uno virtuale allora verrà meno la definizione di “patologie digitali”.
Resta da affrontare l'ultima questione, ovvero il motivo per il quale si è reso necessario stilare una lista di categorie ritenute patologiche nella rete. Alla luce di ciò, la sola spiegazione che riesco a fornire è quella relativa ad una difformità di atteggiamenti da una sorta di normalità ma, come si può facilmente intuire, la definizione di cosa è normale è simile a quella che abbiamo dato all'inizio, ovvero di cosa è reale: va da se che la normalità è un fattore del tutto soggettivo e quindi difficilmente delimitabile all'interno di definizioni rigide ed immutabili. Possiamo allora giungere alla conclusione che è normale ciò che risulta ordinario, ripetitivo o, più semplicemente, consueto e che, al tempo stesso, ha la facoltà di mutare nel tempo. Del resto, la storia dell'uomo ce lo insegna chiaramente: noi tutti siamo oggi convinti di vivere in un'epoca “normale”, gli stessi abitanti del Medioevo ritenevano normale la propria esistenza così come è accaduto per tutte le altre epoche storiche. Ma, come sappiamo, tutte quelle normalità si sono venute a modificare nel tempo, con il risultato che la normalità precedente è stata sostituita dalla normalità successiva. Esulando da questo concetto probabilmente troppo generico ed universale, possiamo quotidianamente riconoscere la consuetudine da ciò che invece è insolito, inatteso, anormale, ma non per questo del tutto negativo.
Le patologie, identificate in una serie di categorie, rappresentano proprio la non consuetudine di taluni tipi di comportamenti in ambito digitale, alcuni peculiari, altri curiosi, ma nessuno di essi totalmente deviante o compromettente a livello sintomatico o neurologico (insomma, nessuna categoria si riferisce a soggetti malati o pazzi!). Quindi, l'ideale per un'ipotetica eliminazione di queste categorie sarebbe il riconoscimento di un frammento di ciascuna di esse in ogni singolo profilo, ma è facile riconoscere la non ammissibilità di questa prospettiva.
In relazione alla creazione delle categorie, è semplice avanzare la critica di un'eccessiva rigidità delle stesse, soprattutto in ambito terminologico, poiché nessuna di esse ha la pretesa di rivelarsi indubbiamente vera o assolutamente valida. Ci tengo poi ad evidenziare, non tanto in mia difesa, quanto l'attività di categorizzazione sia insita nell'essere umano e noi tutti non facciamo altro che creare, modificare ed eliminare categorie quotidianamente ed in relazione a qualsiasi stimolo: ci è sufficiente cogliere una caratteristica di un soggetto per collocarlo, ad esempio, in una determinata categoria sociale, oppure ci basta riconoscere un certo tipo di animale per individuarne la razza, così come sappiamo riconoscere dalle pagine di un libro a quale genere letterario esso si riferisce. In definitiva, l'attività di categorizzazione è alla base del comportamento umano.
Alla luce di quanto detto finora, ci tengo a sottolineare che i tipi di categorie da me riportate non sono presenti allo stato puro, ovvero nessuna categoria è unica in sé: caratteristiche della categoria A possono essere individuate nella categoria B così come caratteristiche della categoria C possono trovarsi nella categoria B ma non nella categoria A e così via. Le categorie sono quindi interconnesse fra di loro ed è pressoché impossibile non ritrovarsi almeno in minima parte in una di esse.


Qui il seguito del post nel quale si presentano le suddette categorie.

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