Vivendo
in un'epoca pervasa da un sempre più dilagante e contagioso dominio
digitale, diviene normale
per non dire fondamentale la necessità di individuare concretamente
il confine che separa la cosiddetta realtà fisica
(o materiale)
dalla nuova realtà virtuale,
entrambe afferenti ai rispettivi universi: la prima legata al mondo
fruibile direttamente da ogni individuo ed eventualmente in parte
modificabile dalle proprie azioni concrete, la seconda relativa al
mondo digitale della rete, divenuta ormai popolare e fondamentale sia
per i diversi metodi di comunicazione da essa offerti e sia per i
nuovi rapporti sociali che grazie ad essa si sono venuti a creare.A
tal proposito diviene allora essenziale distinguere ciò che è reale
da ciò che, ipoteticamente, non lo è. Siccome il significato di
“realtà” è un concetto piuttosto fuggevole ed estremamente
soggettivo, poiché ogni individuo lo interpreta a modo proprio e gli
assegna un determinato valore sulla base delle proprie emozioni ed
esperienze quotidiane, risulta quindi difficoltoso stabilire
univocamente ciò che si ritiene essere reale in senso
universalistico o gnoseologico. A fronte di questa difficoltà,
possiamo allora tracciare un profilo chiaro ma al contempo opinabile
di realtà: possiamo definire la realtà come la condizione grazie
alla quale è possibile qualsivoglia forma di esistenza
di un qualsiasi tipo di stimolo, materiale o immateriale.
Se
prendiamo come ammissibile tale dichiarazione, ci è possibile
ritenere reale anche (e soprattutto) ciò che è immateriale e non
direttamente accessibile: del resto, tale processo inferenziale lo
mettiamo quotidianamente in pratica ogni qualvolta siamo difronte ai
personaggi narrati in un romanzo, oppure quando assistiamo alla trama
di un film, o ancora quando ci cimentiamo nell'azione di un
videogioco etc. Tutte queste situazioni, seppur non direttamente
accessibili, non risultano meno vere (e quindi meno reali) di ciò
che invece possiamo fisicamente toccare o sentire. Se ci rifiutassimo
di assegnare un valore anche minimo di veridicità alla trama di un
romanzo, non saremmo neppure capaci di sfogliare le pagine di un
libro, così come saremmo restii a prendere per vera l'azione di un
videogioco e così via. Ma è proprio in questa assegnazione di
valore che risiede la nostra capacità di prendere per vero anche ciò
che non possiamo fisicamente raggiungere e tale aspetto si è reso
ancora più critico con l'imporsi della rete, ovvero di un mondo
parallelo che non possiamo raggiungere e neppure individuare
precisamente. Ci è possibile però distinguere dalla realtà
virtuale ciò che è la sua infrastruttura tecnologica,
ovvero l'insieme delle sue componenti tecniche, materiali e
processuali che, effettivamente, ne garantiscono l'esistenza e il
sostentamento.
Ma
al di fuori di questa prospettiva più che concreta, il mondo
virtuale della rete è rappresentato da un luogo vero e proprio, anzi
da un non-luogo,
ovvero un ambiente nel quale mancano le due componenti
spazio-temporali necessarie al riconoscimento di un qualsiasi tipo di
luogo. Infatti nella rete è assente:
- lo spazio, poiché essa è priva di confini ben delimitabili, anzi ne è totalmente sprovvista. Non ci è possibile quindi stabilire dove essa cominci e dove finisce, quanto è estesa o profonda, così come non ci è possibile stabilire cosa vi sia oltre la rete, ammesso che vi sia effettivamente qualcosa;
- il tempo, poiché nella rete non vi è una vera e propria scansione frattale degli istanti temporali, non è possibile riconoscere la successione dei momenti in cui è abitualmente suddivisa la realtà fisica nella forma degli anni, dei giorni e delle ore. Nella rete non vi è un futuro, giacché non risulta sensato procrastinare decisioni o azioni in un tempo altro, così come non è individuabile un passato, dato che ciò che è stato precedentemente archiviato può essere riportato alla luce, divenendo così ancora attuale. La rete è quindi permeata da un generico presente.
Alla
luce di quanto detto finora, ovvero della mancanza di accessibilità
diretta e dell'inesistenza del fattore spazio-temporale, diviene
cruciale stabilire un metodo di accesso alla rete, ovvero della
potenzialità da parte di un individuo di essere in grado di fruire
dei servizi offerti dalla rete. È stato allora necessario dare vita
ad una proiezione
dell'uomo all'interno di essa, individuabile dapprima nei cosiddetti
indirizzi
e-mail,
corrispondenti a dei veri e propri recapiti dotati di indirizzo e
nominativo del mittente/possessore, e successivamente riscontrabile
nei profili,
che a tutt'oggi sono la versione più completa e più vicina
possibile a quella dell'individuo in carne ed ossa.
Il profilo possiede un
nome, tecnicamente corrispondente a quello reale del suo possessore,
così come possiede una fotografia che ne raffigura il volto, ed è
anche dotato di una serie di informazioni utili ad individuare e
riconoscere i gusti e le attività personali di quel profilo,
rendendolo perciò unico ed inimitabile al pari di ogni singolo
individuo nella realtà fisica.
All'interno
della rete i profili si incontrano e si scambiano informazioni al
pari di quello che accade nel mondo materiale, e tali rapporti
sociali si consumano nelle piazze
o arene
digitali,
dei veri e propri luoghi di incontro e di socializzazione dove gli
individui/profili si incontrano ed intrattengono rapporti
conoscitivi. Queste piazze digitali possono corrispondere sia con i
celeberrimi siti
d'incontri,
ovvero servizi utili alla ricerca di un determinato partner, oppure,
più di recente, sono meglio identificabili con i famosi social
network,
che meglio adempiono nell'immaginario collettivo all'idea di luogo
virtuale.
Parlando
di rapporti sociali digitali,
i profili danno vita a veri e propri comportamenti ed atteggiamenti
assimilabili a quelli della realtà fisica e proprio per questo
altrettanto riconoscibili, individuabili e, perché no, studiabili.
In
questa sede, ho preso in prestito il termine di patologia
per indicare i diversi tipi di rapporti sociali intrapresi dai
profili nella rete. A tal proposito, ci tengo a sottolineare che il
termine patologia non è da intendersi come malattia o infermità, ma
piuttosto come insieme di condizioni anomale
le quali si rivelano peculiari e totalmente distinguibili le une
dalle altre e che, al pari della realtà fisica, possono portare a
volte a comportamenti devianti o non conformi al senso comune. Ma,
trattandosi di realtà virtuale, essa si discosta in parte dalla
realtà fisica poiché possiede regole e leggi del tutto proprie.
Osservando
l'utilizzo che gli individui fanno di Facebook,
il social network indubbiamente più famoso e più interessante sotto
il profilo sociologico, ho potuto riscontrare diversi comportamenti
anomali o patologici che si vengono a creare piuttosto di frequente.
Tali patologie afferiscono solo e soltanto alle arene digitali,
niente e nessuno ci può dare la conferma dei medesimi comportamenti
anche nella realtà fisica: un individuo A può dare prova di un
comportamento x
all'interno della realtà virtuale, così come può dare prova di un
comportamento y
al di fuori di essa. Lo stesso ragionamento vale per il caso
contrario, ovvero quando vi può essere una corrispondenza del
comportamento di A sia nella realtà fisica che in quella virtuale.
Siccome il nostro discorso si consuma soltanto sul piano virtuale,
dobbiamo necessariamente discostarci dall'ordinario e prendere per
ordinario o, ancora meglio, come ammissibili
e probabili
fatti e accadimenti esclusivi del mondo virtuale. È del tutto
normale, quindi, se un profilo visibile come “connesso” non
risponde ad una comunicazione tramite chat, mentre la stessa cosa non
può essere considerata ammissibile in una comunicazione faccia a
faccia, nella quale una non risposta alla domanda di uno degli
interlocutori facenti parte alla conversazione viene giustamente
vista come anormale.
Principalmente,
l'uso e il ricorso che gli utenti fanno di Facebook si attesta ad
un'unica attività: la ricerca di una sempre maggiore ed ampia
visibilità.
Essa la si raggiunge essenzialmente tramite un'alta quantità di
“amici” perseguibile sia da una massiccia mole di richieste
d'amicizia pervenute
ad un profilo oppure inviate dal profilo stesso ad una quantità
indefinita di altri profili. Se tali richieste di amicizia vengono
accettate (e spesso si presume che ciò accada) un profilo potrà
così annoverare un alto numero di contatti, tutti potenziali seguaci
delle diverse attività intraprese dal profilo stesso, le quali si
traducono nella stesura di status
(o
post),
ovvero di commenti ed idee personali sulla propria bacheca, oppure
nel commento di post altrui, oppure nell'assegnazione dei “mi
piace” ad altrettanti commenti o post degli amici. Le medesime
attività si riscontrano anche da parte di tutti gli altri profili.
Quanto più un'attività sarà commentata in ogni forma, tanto più
ciò rivela un'assidua e costante attenzione alle azioni virtuali di
un determinato profilo. La ricerca di visibilità, quindi, si
riscontra proprio nella capacità di un dato utente di saper
pubblicare e postare elementi che ritiene potranno essere
interessanti e quindi molto seguiti dai rispettivi amici e, come
abbiamo detto, la popolarità di un'azione, e conseguentemente del
suo contenuto, la si riscontra nella quantità di attenzioni ad essa
rivolte. Va sottolineato che la metodologia sulla quale è sorretto
il sistema comunicativo di Facebook non consente l'espressione di
disapprovazione diretta da parte di un utente il quale, per
manifestare ciò, è in ogni caso costretto a lasciare un commento ad
un'attività che giudica non condivisibile: l'attività medesima,
anche se correlata da commenti negativi, avrà comunque ricevuto
un'alta dose di attenzioni, che non è nient'altro che l'obiettivo
principale di ogni profilo. Anche in questo senso, quindi, un utente
avrà raggiunto il proprio scopo, indipendentemente dalla positività
o negatività dei commenti degli amici.
La ricerca di visibilità
porta con se due inevitabili considerazioni:
- essa rappresenta l'unico modo che gli utenti hanno per dare una prova effettiva della loro esistenza sul social network, quindi essa si rivela essenziale per la permanenza di un profilo all'interno di un'arena digitale. Alla luce di ciò, indipendentemente dalla quantità di amici, una qualsiasi attività di un utente potrà dirsi seguita qualora riceva anche un solo commento od un solo “mi piace”. In caso contrario, ovvero qualora l'attività non venisse in alcun modo commentata, si dà per scontato che essa non sia stata letta da nessuno, quindi è come se l'utente si fosse rivolto al vento: niente e nessuno può dirci infatti se l'attività priva di commenti sia stata effettivamente trascurata perché non vista, oppure se essa sia stata deliberatamente ignorata di sana pianta da chicchessia. Fatto sta che essa non ha ricevuto commenti e quindi per il proprietario del profilo sta a significare che nessuno l'ha considerata, vanificando così le sue azioni nell'arena digitale utili a testimoniare la sua esistenza. È quindi importante che l'attività di un profilo venga presa in considerazione, senza porre limiti o problemi alla quantità delle attenzioni ricevute;
- essa può assumere connotati preoccupanti qualora il profilo fosse costantemente alla ricerca di un'alta visibilità, la quale è preferibile che sia di più ampio gradimento e consenso possibile. Per fare ciò, un utente possiede solo una strada, ovverosia quella di pubblicare status e post con un contenuto alquanto discutibile per via del loro significato di qualità mediocre o scarso, ma che riceveranno (o avranno più probabilità di ricevere) una mole esorbitante di commenti e di “mi piace”, il tutto al solo scopo di andare ben al di la della semplice visibilità minima utile a garantire la permanenza di un profilo all'interno di un social network. Questa continua ricerca di ampi consensi rischia di tramutarsi in ossessione qualora le attività dell'utente degenerano in azioni degradanti o al limite del ridicolo ed in casi come questi l'unica spiegazione a livello psicologico che possa giustificare un simile atteggiamento risiede o nella carenza di attenzioni nell'ambito della realtà fisica del soggetto (quindi, in parole povere, nell'assenza di attenzioni nella sua vita di tutti i giorni) oppure testimoniano una scarsa o mancata dose di affetto ricevuta e/o percepita. In casi come questi, si ritiene che il soggetto compensi questi deficit tramite il raggiungimento di soddisfazioni virtuali che aumentino la loro autostima e rinfranchino i loro animi. È altresì vero che tali soggetti si possono ridurre alla pubblicazione di questi scarsi contenuti al solo fine di divenire popolari, ricevere elogi e/o complimenti per rinforzare così la loro presunta consapevolezza e certezza di essere in un qualche modo superiori alla massa, di avere una marcia in più e proprio un alto numero di adesioni e consensi agli elementi da loro pubblicati testimonia questa vocazione.
È proprio grazie a
questo secondo punto di vista che ho potuto stilare le 6 categorie di
profili che danno prova di comportamenti patologici, nell'accezione
del termine indicata sopra. Ci tengo altresì a ricordare che questi
comportamenti patologici possono non essere ritenuti tali qualora il
reale comportamento di un soggetto assomigli del tutto o in parte a
quello del rispettivo profilo; ma, siccome questa corrispondenza non
può in alcun modo essere provata (così come è stato detto poco
sopra a proposito del soggetto A e del suo comportamento x/y), non ci
resta che considerare come necessariamente patologici tutti i
comportamenti di seguito descritti. Qualora vi sarà la possibilità
concreta di determinare una somiglianza, per non dire una
coincidenza, fra un comportamento fisico ed uno virtuale allora verrà
meno la definizione di “patologie digitali”.
Resta
da affrontare l'ultima questione, ovvero il motivo per il quale si è
reso necessario stilare una lista di categorie ritenute patologiche
nella rete. Alla luce di ciò, la sola spiegazione che riesco a
fornire è quella relativa ad una difformità di atteggiamenti da una
sorta di normalità
ma, come si può facilmente intuire, la definizione di cosa è
normale è simile a quella che abbiamo dato all'inizio, ovvero di
cosa è reale:
va da se che la normalità è un fattore del tutto soggettivo e
quindi difficilmente delimitabile all'interno di definizioni rigide
ed immutabili. Possiamo allora giungere alla conclusione che è
normale ciò che risulta ordinario, ripetitivo o, più semplicemente,
consueto
e che, al tempo stesso, ha la facoltà di mutare nel tempo. Del
resto, la storia dell'uomo ce lo insegna chiaramente: noi tutti siamo
oggi convinti di vivere in un'epoca “normale”, gli stessi
abitanti del Medioevo ritenevano normale la propria esistenza così
come è accaduto per tutte le altre epoche storiche. Ma, come
sappiamo, tutte quelle normalità si sono venute a modificare nel
tempo, con il risultato che la normalità precedente è stata
sostituita dalla normalità successiva. Esulando da questo concetto
probabilmente troppo generico ed universale, possiamo quotidianamente
riconoscere la consuetudine da ciò che invece è insolito, inatteso,
anormale,
ma non per questo del tutto negativo.
Le
patologie, identificate in una serie di categorie, rappresentano
proprio la non consuetudine di taluni tipi di comportamenti in ambito
digitale, alcuni peculiari, altri curiosi, ma nessuno di essi
totalmente deviante o compromettente a livello sintomatico o
neurologico (insomma, nessuna categoria si riferisce a soggetti
malati o pazzi!). Quindi, l'ideale per un'ipotetica eliminazione di
queste categorie sarebbe il riconoscimento di un frammento di
ciascuna
di esse in ogni singolo profilo, ma è facile riconoscere la non
ammissibilità di questa prospettiva.
In relazione alla
creazione delle categorie, è semplice avanzare la critica di
un'eccessiva rigidità delle stesse, soprattutto in ambito
terminologico, poiché nessuna di esse ha la pretesa di rivelarsi
indubbiamente vera o assolutamente valida. Ci tengo poi ad
evidenziare, non tanto in mia difesa, quanto l'attività di
categorizzazione sia insita nell'essere umano e noi tutti non
facciamo altro che creare, modificare ed eliminare categorie
quotidianamente ed in relazione a qualsiasi stimolo: ci è
sufficiente cogliere una caratteristica di un soggetto per
collocarlo, ad esempio, in una determinata categoria sociale, oppure
ci basta riconoscere un certo tipo di animale per individuarne la
razza, così come sappiamo riconoscere dalle pagine di un libro a
quale genere letterario esso si riferisce. In definitiva, l'attività
di categorizzazione è alla base del comportamento umano.
Alla
luce di quanto detto finora, ci tengo a sottolineare che i tipi di
categorie da me riportate non
sono presenti allo stato puro,
ovvero nessuna categoria è unica in sé: caratteristiche della
categoria A possono essere individuate nella categoria B così come
caratteristiche della categoria C possono trovarsi nella categoria B
ma non nella categoria A e così via. Le categorie sono quindi
interconnesse
fra di loro ed è pressoché impossibile non ritrovarsi almeno in
minima parte in una di esse.
Qui il seguito del post nel quale si presentano le suddette categorie.
Qui il seguito del post nel quale si presentano le suddette categorie.
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