domenica 24 marzo 2013

La tv del dolore: breve antologia


Sono le ore 19 di mercoledì 10 giugno 1981 e nella campagna romana si percepisce ancora il riverbero delle ultime ore di sole che riscaldano l'aria. Il piccolo Alfredo di 6 anni è in compagnia del padre Ferdinando e siccome si stava avvicinando l'ora di cena il bimbo gli chiede di poter fare ritorno a casa da solo e, visto che l'abitazione distava solo qualche decina di metri, il padre glielo concesse. A quel punto Alfredo salutò il padre e si diresse correndo verso casa, lasciando che i folti ciuffi d'erba della campagna gli accarezzassero le gambe nude ed il vento gli scompigliava i lunghi capelli castani. Il giovane nell'avvicinarsi a casa già pregustava la cena che gli aveva preparato la madre così come non vedeva l'ora di starsene al caldo sdraiato nel suo letto visto che ormai la sera stava lentamente avvicinandosi.
Ad un certo punto, inaspettatamente, Alfredo sentì un vuoto sotto i piedi, colpì violentemente un ginocchio contro il terreno arido, sentì un forte dolore alla testa e alle braccia, un dolore prolungato causato dalla roccia ruvida e fredda che gli graffiò la pelle procurandogli profonde ferite, percepì il fango imbrattargli il corpo e i vestiti mentre il suo odore gli entrava nel naso. Poi, da quel momento, il buio. L'oscurità più totale ed il senso d'abbandono insieme allo sgomento e alla disperazione furono gli ultimi compagni di vita di Alfredo che da quella trappola nelle cavità della terra non ne uscì mai più, trovandone la morte tre giorni dopo, il 13 giugno del 1981 alle ore 7.

Questa breve ma tragica storia è chiaramente quella di Alfredino Rampi, il bimbo che suo malgrado divenne il principale protagonista di uno dei più drammatici e struggenti fatti di cronaca degli anni '80, un fatto epocale, un avvenimento unico sotto diversi profili.
Innanzitutto esso è un fatto tragico, non tanto per la gravità in se, poiché in fondo si tratta “soltanto” di un ragazzino incastrato in un pozzo, quanto invece per l'incapacità e per l'impotenza dello Stato d'innanzi alla vita di un bambino. Non appena sopraggiunsero sul posto i soccorsi chiamati dai genitori non vi fu forza dell'ordine capace di trovare una soluzione per il recupero del bimbo, incastrato a 36 metri di profondità; anzi, si ebbe solo modo di assistere a dei goffi e infelici tentativi di salvataggio, primo fra tutti l'idea di calare nel pozzo largo appena 30cm una tavola di legno legata ad una corda, alla quale il bimbo si sarebbe dovuto aggrappare per poi essere risollevato in superficie. Ma l'idea non ebbe neppure il tempo d'essere provata che subito incontrò il primo ed evidente ostacolo, incastrandosi infatti fra le pareti del pozzo a pochi metri dal suolo, fungendo così da tappo impedendone l'accesso. Già da questo triste gesto si può intuire la totale impreparazione e inesperienza che regnava fra i soccorritori, nessuno dei quali seppe mai trovare delle idee ragionate ed efficaci per recuperare il piccolo Alfredino.

Arrivarono sul luogo squadre di pompieri e anche di speleologi, a rigore i più arguti ed esperti in materia, ma nessuno riuscì a trovare una soluzione felice. Nel frattempo giunsero a Vermicino, nella campagna romana, piccole troupe televisive insieme a qualche curioso che voleva osservare in prima persona quello strano caso del bambino caduto nel pozzo. Muniti forse di un'eccessiva sicurezza e di una sfrontatezza probabilmente del tutto fuori luogo, i pompieri assicurarono che in breve tempo la vita di Alfredino sarebbe stata tratta in salvo. Rincuorati da quelle belle parole, l'edizione ordinaria del Tg 1 delle 13 sforò di 15 minuti la normale programmazione, in attesa che il corpo del bimbo riaffiorasse da quella voragine. Ma così purtroppo non fu e i 15 minuti di sforamento divennero successivamente ore, oltre 18 ore ininterrotte di diretta televisiva, la più lunga che la televisione pubblica ebbe mai realizzato, al solo scopo di restare in attesa di qualche segno positivo. Nel frattempo l'attenzione degli italiani e dell'opinione pubblica generale si concentrò su questo fatto di cronaca e poco importa se nel frattempo vi fu lo scandalo della loggia P2 con conseguente crisi di governo, poco importa se vi fu l'attentato a Papa Giovanni Paolo II, poco importa se nelle stesse ore Roberto Peci fu rapito dalle Brigate Rosse perché “colpevole” di essere fratello di un pentito brigatista: tutto ciò non interessava, ciò che si voleva sapere con maggiore apprensione erano le sorti di Alfredino.

È così che inizia un nuovo modo di fare informazione, un nuovo modo di raccontare le notizie e di fornire fatti di cronaca: è con la tragedia di Vermicino che nasce la cosiddetta tv del dolore, ovvero quel particolare modo di fare informazione televisiva in bilico fra un accanimento forzato sui fatti, cogliendone ogni minima rilevanza ed irrilevanza, e la costruzione di un discorso sui fatti stessi, discorso che nel tempo è esondato dai bacini dei telegiornali come un fiume in piena per invadere anche altri tipi di programmi e di canali di comunicazione. È dal dramma di Vermicino che nasce così l'insistenza sulle dinamiche delle tragedie familiari, è da qui che nascono le interviste in diretta a parenti in lacrime, è da qui che si sviluppa l'accanimento sugli sviluppi delle indagini, sui risvolti degli omicidi, sulle inchieste giornalistiche di presunto valore informativo. Si sviluppa quindi il sensazionalismo della notizia, la scoperta negli italiani della passione per il macabro, per l'efferato, per il sinistro, per il dolore.
Il dramma di Alfredino parla chiaro: quella era una televisione senza esperienza nelle dirette tv e addirittura priva delle adeguate tecnologie, così come persisteva ancora un certo senso del pudore e di rispetto per il dolore delle vittime, ma anche se la televisione era impreparata e anche se conservava ancora una sorta di deontologia nell'informazione la sete di sapere del pubblico era troppo forte e la tv doveva dare al pubblico ciò che esso si aspettava, doveva accontentarlo, anche a fronte dei 21 milioni di telespettatori che invasero le dirette Rai a reti unificate facendo registrare picchi di ascolti record.

Come non soddisfare la fame informativa del pubblico? Come non approfittare di un evento mediatico (seppur tragico) come quello per incassare ascolti? Tanto valeva approfittarne e fu così che le poche troupe televisive divennero decine, così come i pochi curiosi giunti sul posto divennero decine di migliaia di persone. Giunsero addirittura venditori di panini e di zucchero filato, si dovettero transennare le zone per evitare il sovraffollamento ed il luogo era talmente onusto di gente che persino i mezzi di soccorso incontrarono difficoltà nel farsi spazio per passare. L'attenzione dei media era talmente alta, la tensione talmente forte, l'apprensione, la preoccupazione, il timore, l'angoscia così percepibili da rendere l'atmosfera pregna di pathos, intrisa di coinvolgimento emotivo. Non mancò neppure la visita del Capo dello Stato Sandro Pertini che volle personalmente presenziare ad un possibile salvataggio di Alfredino.

Si mandarono in diretta tutti gli istanti, tutti gli attimi carichi di tensione, comprese le interviste alla madre del bimbo in lacrime, così come le atroci grida di disperazione di Alfredino provenienti dall'abisso, ovattate dalle pareti buie di quel dannato pozzo nel quale era intrappolato ormai da troppo tempo.
Vermicino si trasformò in quello che oggi chiameremmo “circo mediatico”, una babele vergognosa di curiosi, un andirivieni di cameraman e giornalisti impegnati nell'affannoso tentativo di inviare ai telespettatori ogni singolo istante di quel dramma al solo scopo di informare.

Ma è informazione questa? O, piuttosto, è un accanimento, un'insistenza, una perseveranza grottesca nel mettere in risalto il macabro? Ma, soprattutto, questa storia ha giovato alle sorti del piccolo Alfredino? Assolutamente no, poiché, come sappiamo, il bimbo nel pozzo vi morì tre giorni dopo, a 60 metri di profondità e dopo oltre 63 ore di inutili e disperati tentativi, in un'epoca dove la Protezione Civile ancora non esisteva e dove lo Stato italiano si dimostrò impotente, disarmato difronte all'impossibilità di salvare la vita ad un bambino, decretando questo avvenimento come un grande e triste fallimento.
La tv del dolore nel frattempo è cambiata, oggi si maschera da inchiesta giornalistica d'avanguardia, da approfondimento in prima e seconda serata, da intervista esclusiva, senza fare in modo che lo spettatore si accorga che se anche non c'è nulla di nuovo da dire la tv del dolore ritorna ugualmente sull'argomento, gira e rigira il coltello nella piaga al solo scopo di dare al pubblico ciò che egli desidera di più: ed è così che i telegiornali spesso iniziano con una notizia di cronaca nera, così come i salotti televisivi del pomeriggio ospitano fior fiori di esperti criminologi, psicologi, inviati speciali impegnati a discutere dell'ennesimo fatto di sangue, ed allo stesso modo sorgono sempre nuovi programmi televisivi che trattano di omicidi, di persone scomparse, di drammi familiari, il tutto al solo fine di parlare e speculare sul dolore altrui, travalicando quelli che sono i limiti deontologici dell'informazione e della rilevanza della notizia per cadere invece nel circolo vizioso della ricorsività, della ripetizione e della reiterazione delle informazioni. Ogni scusa è buona per non distrarre lo spettatore dall'efferatezza dell'ultimo omicidio, ogni motivo è valido per ritornare insistentemente e più volte sullo stesso caso, anche del passato, al solo fine di poterne parlare e riempire la testa delle persone di dolore mischiato all'intrattenimento, perché è di questo che si sta parlando, di infotainment, di cronaca nera mixata al gossip, generando così un obbrobrio comunicativo senza alcuna utilità.
Sono tutti casi di imitazione sfrontata della tragedia di Vermicino, epigoni di un modo di fare televisione ingenuamente squallido e in taluni casi violento e volgare poiché nella tv del dolore si vuole dare una notizia facendo conseguentemente notizia, cioè diventando il mezzo di informazione esso stesso una notizia, arrivando così a metacomunicare come già ho avuto modo di ripetere più volte.

Allo stesso modo, nella tv del dolore vi è l'interesse nella creazione di un'empatia fra la drammaticità delle storie raccontate e lo spettatore il quale si ritroverà ad immedesimarsi in questi eventi perché essi appartengono alla vita di tutti i giorni e in linea di massima possono capitare un po' a tutti, persino allo spettatore stesso. Si genera così una continua impersonificazione dello spettatore nei familiari delle vittime, un continuo gioco di immedesimazione fra i personaggi dei drammi e il pubblico al solo scopo di garantirsi gli ascolti mascherandoli da buona e dovuta informazione televisiva, sbeffeggiando il pudore e il rispetto dell'opinione pubblica la quale può legittimamente sentirsi offesa o infastidita da questo deprecabile modo di fare informazione televisiva.

Nei successivi post si vedranno in dettaglio i programmi televisivi che meglio rappresentano la tv del dolore che, occorre sottolineare, è un genere trasversale che ingloba diversi stili televisivi, anche quelli più insospettabili.

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