Sono le ore 19 di
mercoledì 10 giugno 1981 e nella campagna romana si percepisce
ancora il riverbero delle ultime ore di sole che riscaldano l'aria.
Il piccolo Alfredo di 6 anni è in compagnia del padre Ferdinando e
siccome si stava avvicinando l'ora di cena il bimbo gli chiede di
poter fare ritorno a casa da solo e, visto che l'abitazione distava
solo qualche decina di metri, il padre glielo concesse. A quel punto
Alfredo salutò il padre e si diresse correndo verso casa, lasciando
che i folti ciuffi d'erba della campagna gli accarezzassero le gambe
nude ed il vento gli scompigliava i lunghi capelli castani. Il
giovane nell'avvicinarsi a casa già pregustava la cena che gli aveva
preparato la madre così come non vedeva l'ora di starsene al caldo
sdraiato nel suo letto visto che ormai la sera stava lentamente
avvicinandosi.
Ad un certo punto,
inaspettatamente, Alfredo sentì un vuoto sotto i piedi, colpì
violentemente un ginocchio contro il terreno arido, sentì un forte
dolore alla testa e alle braccia, un dolore prolungato causato dalla
roccia ruvida e fredda che gli graffiò la pelle procurandogli
profonde ferite, percepì il fango imbrattargli il corpo e i vestiti
mentre il suo odore gli entrava nel naso. Poi, da quel momento, il
buio. L'oscurità più totale ed il senso d'abbandono insieme allo
sgomento e alla disperazione furono gli ultimi compagni di vita di
Alfredo che da quella trappola nelle cavità della terra non ne uscì
mai più, trovandone la morte tre giorni dopo, il 13 giugno del 1981
alle ore 7.
Questa breve ma tragica
storia è chiaramente quella di Alfredino Rampi, il bimbo che suo
malgrado divenne il principale protagonista di uno dei più
drammatici e struggenti fatti di cronaca degli anni '80, un fatto
epocale, un avvenimento unico sotto diversi profili.
Innanzitutto esso è un
fatto tragico, non tanto per la gravità in se, poiché in fondo si
tratta “soltanto” di un ragazzino incastrato in un pozzo, quanto
invece per l'incapacità e per l'impotenza dello Stato d'innanzi alla
vita di un bambino. Non appena sopraggiunsero sul posto i soccorsi
chiamati dai genitori non vi fu forza dell'ordine capace di trovare
una soluzione per il recupero del bimbo, incastrato a 36 metri di
profondità; anzi, si ebbe solo modo di assistere a dei goffi e
infelici tentativi di salvataggio, primo fra tutti l'idea di calare
nel pozzo largo appena 30cm una tavola di legno legata ad una corda,
alla quale il bimbo si sarebbe dovuto aggrappare per poi essere
risollevato in superficie. Ma l'idea non ebbe neppure il tempo
d'essere provata che subito incontrò il primo ed evidente ostacolo,
incastrandosi infatti fra le pareti del pozzo a pochi metri dal
suolo, fungendo così da tappo impedendone l'accesso. Già da questo
triste gesto si può intuire la totale impreparazione e inesperienza
che regnava fra i soccorritori, nessuno dei quali seppe mai trovare
delle idee ragionate ed efficaci per recuperare il piccolo Alfredino.
Arrivarono sul luogo
squadre di pompieri e anche di speleologi, a rigore i più arguti ed
esperti in materia, ma nessuno riuscì a trovare una soluzione
felice. Nel frattempo giunsero a Vermicino, nella campagna romana,
piccole troupe televisive insieme a qualche curioso che voleva
osservare in prima persona quello strano caso del bambino caduto nel
pozzo. Muniti forse di un'eccessiva sicurezza e di una sfrontatezza
probabilmente del tutto fuori luogo, i pompieri assicurarono che in
breve tempo la vita di Alfredino sarebbe stata tratta in salvo.
Rincuorati da quelle belle parole, l'edizione ordinaria del Tg 1
delle 13 sforò di 15 minuti la normale programmazione, in attesa che
il corpo del bimbo riaffiorasse da quella voragine. Ma così
purtroppo non fu e i 15 minuti di sforamento divennero
successivamente ore, oltre 18 ore ininterrotte di diretta televisiva,
la più lunga che la televisione pubblica ebbe mai realizzato, al
solo scopo di restare in attesa di qualche segno positivo. Nel
frattempo l'attenzione degli italiani e dell'opinione pubblica
generale si concentrò su questo fatto di cronaca e poco importa se
nel frattempo vi fu lo scandalo della loggia P2 con conseguente crisi
di governo, poco importa se vi fu l'attentato a Papa Giovanni Paolo
II, poco importa se nelle stesse ore Roberto Peci fu rapito dalle
Brigate Rosse perché “colpevole” di essere fratello di un
pentito brigatista: tutto ciò non interessava, ciò che si voleva
sapere con maggiore apprensione erano le sorti di Alfredino.
È così che inizia un
nuovo modo di fare informazione, un nuovo modo di raccontare le
notizie e di fornire fatti di cronaca: è con la tragedia di
Vermicino che nasce la cosiddetta tv del dolore,
ovvero quel particolare modo di fare informazione televisiva in
bilico fra un accanimento forzato sui fatti, cogliendone ogni minima
rilevanza ed irrilevanza, e la costruzione di un discorso sui fatti
stessi, discorso che nel tempo è esondato dai bacini dei
telegiornali come un fiume in piena per invadere anche altri tipi di
programmi e di canali di comunicazione. È dal dramma di Vermicino
che nasce così l'insistenza sulle dinamiche delle tragedie
familiari, è da qui che nascono le interviste in diretta a parenti
in lacrime, è da qui che si sviluppa l'accanimento sugli sviluppi
delle indagini, sui risvolti degli omicidi, sulle inchieste
giornalistiche di presunto valore informativo. Si sviluppa quindi il
sensazionalismo della notizia, la scoperta negli italiani della
passione per il macabro, per l'efferato, per il sinistro, per il
dolore.
Il
dramma di Alfredino parla chiaro: quella era una televisione senza
esperienza nelle dirette tv e addirittura priva delle adeguate
tecnologie, così come persisteva ancora un certo senso del pudore e
di rispetto per il dolore delle vittime, ma anche se la televisione
era impreparata e anche se conservava ancora una sorta di deontologia
nell'informazione la sete di sapere del pubblico era troppo forte e
la tv doveva
dare al pubblico ciò che esso si aspettava, doveva
accontentarlo, anche a fronte dei 21 milioni di telespettatori che
invasero le dirette Rai a reti unificate facendo registrare picchi di
ascolti record.
Come non soddisfare la fame informativa del pubblico? Come non
approfittare di un evento mediatico (seppur tragico) come quello per
incassare ascolti? Tanto valeva approfittarne e fu così che le poche
troupe televisive divennero decine, così come i pochi curiosi giunti
sul posto divennero decine di migliaia di persone. Giunsero
addirittura venditori di panini e di zucchero filato, si dovettero
transennare le zone per evitare il sovraffollamento ed il luogo era
talmente onusto di gente che persino i mezzi di soccorso incontrarono
difficoltà nel farsi spazio per passare. L'attenzione dei media era
talmente alta, la tensione talmente forte, l'apprensione, la
preoccupazione, il timore, l'angoscia così percepibili da rendere
l'atmosfera pregna di pathos, intrisa di coinvolgimento emotivo. Non
mancò neppure la visita del Capo dello Stato Sandro Pertini che
volle personalmente presenziare ad un possibile salvataggio di
Alfredino.
Si mandarono in diretta tutti gli istanti, tutti gli attimi carichi
di tensione, comprese le interviste alla madre del bimbo in lacrime,
così come le atroci grida di disperazione di Alfredino provenienti
dall'abisso, ovattate dalle pareti buie di quel dannato pozzo nel
quale era intrappolato ormai da troppo tempo.
Vermicino
si trasformò in quello che oggi chiameremmo “circo
mediatico”,
una babele vergognosa di curiosi, un andirivieni di cameraman e
giornalisti impegnati nell'affannoso tentativo di inviare ai
telespettatori ogni singolo istante di quel dramma al solo scopo di
informare.
Ma è informazione questa? O, piuttosto, è un accanimento,
un'insistenza, una perseveranza grottesca nel mettere in risalto il
macabro? Ma, soprattutto, questa storia ha giovato alle sorti del
piccolo Alfredino? Assolutamente no, poiché, come sappiamo, il bimbo
nel pozzo vi morì tre giorni dopo, a 60 metri di profondità e dopo
oltre 63 ore di inutili e disperati tentativi, in un'epoca dove la
Protezione Civile ancora non esisteva e dove lo Stato italiano si
dimostrò impotente, disarmato difronte all'impossibilità di salvare
la vita ad un bambino, decretando questo avvenimento come un grande e
triste fallimento.
La
tv del dolore nel frattempo è cambiata, oggi si maschera da
inchiesta giornalistica d'avanguardia, da approfondimento in prima e
seconda serata, da intervista esclusiva, senza fare in modo che lo
spettatore si accorga che se anche non c'è nulla di nuovo da dire la
tv del dolore ritorna ugualmente sull'argomento, gira e rigira il
coltello nella piaga al solo scopo di dare al pubblico ciò che egli
desidera di più: ed è così che i telegiornali spesso iniziano con
una notizia di cronaca nera, così come i salotti
televisivi del pomeriggio ospitano fior fiori di esperti criminologi,
psicologi, inviati speciali impegnati a discutere dell'ennesimo fatto
di sangue, ed allo stesso modo sorgono sempre nuovi programmi
televisivi che trattano di omicidi, di persone scomparse, di drammi
familiari, il tutto al solo fine di parlare e speculare sul dolore
altrui, travalicando quelli che sono i limiti deontologici
dell'informazione e della rilevanza della notizia per cadere invece
nel circolo vizioso della ricorsività, della ripetizione e della
reiterazione delle informazioni. Ogni scusa è buona per non
distrarre lo spettatore dall'efferatezza dell'ultimo omicidio, ogni
motivo è valido per ritornare insistentemente e più volte sullo
stesso caso, anche del passato, al solo fine di poterne parlare e
riempire la testa delle persone di dolore mischiato
all'intrattenimento, perché è di questo che si sta parlando, di
infotainment,
di cronaca nera mixata al gossip, generando così un obbrobrio
comunicativo senza alcuna utilità.
Sono
tutti casi di imitazione sfrontata della tragedia di Vermicino,
epigoni di un modo di fare televisione ingenuamente squallido e in
taluni casi violento e volgare poiché nella tv del dolore si vuole
dare una notizia facendo
conseguentemente notizia, cioè diventando il mezzo di informazione
esso stesso una notizia, arrivando così a metacomunicare come già
ho avuto modo di ripetere più volte.
Allo stesso modo, nella tv del dolore vi è l'interesse nella
creazione di un'empatia fra la drammaticità delle storie raccontate
e lo spettatore il quale si ritroverà ad immedesimarsi in questi
eventi perché essi appartengono alla vita di tutti i giorni e in
linea di massima possono capitare un po' a tutti, persino allo
spettatore stesso. Si genera così una continua impersonificazione
dello spettatore nei familiari delle vittime, un continuo gioco di
immedesimazione fra i personaggi dei drammi e il pubblico al solo
scopo di garantirsi gli ascolti mascherandoli da buona e dovuta
informazione televisiva, sbeffeggiando il pudore e il rispetto
dell'opinione pubblica la quale può legittimamente sentirsi offesa o
infastidita da questo deprecabile modo di fare informazione
televisiva.
Nei successivi post si vedranno in dettaglio i programmi televisivi
che meglio rappresentano la tv del dolore che, occorre sottolineare,
è un genere trasversale che ingloba diversi stili televisivi, anche
quelli più insospettabili.
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