martedì 15 luglio 2014

Unti e bisunti - Recensione



Ormai da troppo tempo il panorama televisivo obnubila la mente e la ragione dei telespettatori propinando cateratte di programmi di cucina che affollano qualsivoglia rete televisiva. Ad ogni ora del giorno e della notte vengono messi in onda sedicenti cuochi sempre pronti ad elargire ricette a iosa oppure intenti a giudicare con copioso astio e cattiveria i piatti di poveri concorrenti aspiranti chef. Poteva ritenersi forse interessante lo show primigenio (“La prova del cuoco”) che per primo ha portato la cucina in tv, ma giunti alla millesima trasmissione culinaria l'interesse e la novità vanno a farsi friggere (appunto).

Purtuttavia, sebbene programmi di siffatta non hanno ormai più nulla da raccontare, gli ascolti parlano diversamente, segno che il pubblico è letteralmente assuefatto da tali spettacoli culinari, anche se non risulta molto chiaro se ciò che attira l'attenzione sia l'interesse per le ricette dalle quali si potrà in seguito prendere spunto per replicarle nella propria cucina o piuttosto la maestria ed il saper fare degli chef, che dimostrano quanto sia semplice realizzare una ricetta in realtà difficilissima. Sebbene non vi sia una chiara risposta a ciò, restano comunque irrisolti alcuni atavici dilemmi: tutti i piatti e le prelibatezze preparate nei programmi, poi, chi se li mangia? Ma, soprattutto, le ubertose quantità di cibo acquistate per le varie ricette, poi, vengono consumate tutte o ne rimangono? E se ne rimangono, che fine fanno?


Ubbie a parte, fra i tanti ed inutili programmi di cucina ve n'è finalmente uno che se ne discosta radicalmente, sia per i toni e sia per i contenuti. Trattasi di “Unti e bisunti” in onda su DMAX, il canale televisivo per veri uomini. Condotto dal tatuato chef Rubio, portatore sano di machismo, lo show si differenzia dai suoi omologhi poiché viene girato on the road per l'Italia, alla stregua di una docu-fiction, senza perciò ricreare la finta convivialità degli studi televisivi ma presentando invece personaggi spesso strampalati che non si capisce bene se ci sono o se ci fanno e che in seguito lo chef deciderà se sfidare in una gara di cucina incentrata sul piatto più calorico di tutti. Ma la vera peculiarità è rappresentata dal tipo di cucina trattato, ovvero lo street food, il cibo da strada reputato evidentemente non consono ai riflettori televisivi giacché nessun programma ne ha mai fatto diretta menzione: lo chef Rubio, invero, deve averci visto lungo poiché ha fatto di queste pietanze dei veri e propri piatti, trattandoli così come devono essere trattati poiché è sempre di cucina che si sta parlando. 

Per cui, con un linguaggio non convenzionale e volutamente rozzo (seppure mai volgare) lo chef ci spiega i procedimenti delle ricette che, trattandosi di DMAX, non possono che contenere ingredienti disgustosi come viscere e interiora di animali oppure essere incredibilmente untuosi e traboccanti di lardo: ed è così che, in un clima goliardico e dal piglio dinamico, viene proposto allo spettatore un modo di fare cucina letteralmente fuori dagli schemi poiché non troviamo uno studio televisivo, non troviamo le solite ricette trite e ritrite e, soprattutto, non dobbiamo sorbirci opinabili giudizi di fantomatici giudici super esperti del palato e dato che l'ora dell'occaso per programmi di tal guisa sembra ancora assai lontana, si sentiva vivamente l'esigenza di un cambiamento, una variazione di rotta che infrangesse la monotonia degli chef prestati alla televisione e che si rivolgesse ad un pubblico ben diverso dal solito, in tal caso un pubblico virile e dagli stomaci forti.

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