mercoledì 30 ottobre 2013

Il Servizio Pubblico di Porta a Porta mette in Gabbia il Virus facendone Piazzapulita alle Otto e Mezzo durante il Coffee Break di Matrix

Rappresenta un tema cruciale quello dell'informazione: se da un lato i cittadini la esigono al fine di essere informati, dall'altro lato è l'informazione stessa che deve adempiere al compito di divulgare il sapere. Vi è quindi un sostrato che accomuna questi due intenti solo in parte diversi, ovvero l'esigenza dell'informazione di poter liberamente circolare grazie anche (e soprattutto) ai diversi mezzi di comunicazione. Possiamo perciò individuare sia un diritto ad essere informati, per quanto riguarda i fruitori, e sia un diritto ad informare, in merito ai produttori. Sarebbe forse d'aiuto a tal proposito scomodare le teorie sociali sulla comunicazione di Schütz, il quale faceva distinzione fra tre tipi di figure che detenevano o fruivano dell'informazione e fra le quali faceva capolino il cosiddetto “cittadino bene informato”, un idealtipo posto a cavallo fra l'esperto, cioè il massimo conoscitore di un determinato campo del sapere, e l'uomo della strada, ovvero il soggetto che raggiunge scopi tipici facendo uso di strumenti altrettanto tipici, senza che esso si specializzi in un certo settore. Il cittadino bene informato, come detto, si pone nel mezzo di queste due figure, giacché esso non possiede né conoscenze approfondite e specifiche e né mette in atto strategie già consolidate per il completamento di compiti standardizzati: in altre parole, il cittadino bene informato decide di lasciarsi informare, ora attingendo dalle indiscusse certezze dell'esperto, ora osservando le esperienze pratiche dell'uomo della strada. Questo però non implica che il cittadino bene informato sia interessato a qualsiasi argomento, così come non significa che non abbia gusti e interessi personali nei confronti delle materie cui decide di avvicinarsi. Poiché il suo scopo è quello di costruirsi delle opinioni ragionevolmente fondate, egli prima sceglie uno o più argomenti di suo interesse e poi decide a quale produttore di informazione rivolgersi per trarre le conoscenze che desidera. Va da se che, fra i tanti sistemi presenti che diffondono informazione e che di conseguenza la producono, la televisione ancora oggi è il mezzo prediletto sia da chi desidera essere informato e sia da chi si vuole informare. Avendo a disposizione una platea così vasta, il mezzo televisivo non ci ha pensato su due volte prima di proporre dei veri e propri contenitori d'informazione, ovvero interi programmi dediti alla circolazione di notizie: se al principio di questo sistema vi erano i classici Telegiornali, con il tempo si è arrivati sino ai celebri talk show nei quali non solo si divulgano notizie ma queste ultime vengono prodotte in un modo molto curioso, ovvero attraverso una conversazione, un contraddittorio che avviene tra ospiti e conduttori. Una volta deciso l'argomento ogni ospite viene legittimato a fornire la propria opinione non in virtù della libertà di pensiero e di parola, ma grazie alla rilevanza socialmente riconosciuta della sua personalità, cioè all'importanza strategica che il suo nome, la sua fama, la sua conoscenza riveste in un certe ambito del sapere o della società in generale. Trattasi dei cosiddetti “esperti” citati poc'anzi.

Alla luce di questo pedante (ma a mio avviso necessario) indottrinamento accademico, non si può non correre con la mente alla quantità esorbitante e anche imbarazzante di talk show presenti nei palinsesti televisivi italiani, forse l'unico paese al mondo che propone un'offerta così ampia. Ebbene, se è vero che l'atto informativo gode di due anime, quelle dell'emittente che produce la notizia e quella del ricevente che la fruisce, è evidente che nella situazione attuale il pubblico televisivo si trova vittima di uno squilibrio dal lato dell'informazione poiché i talk show sono cresciuti come funghi in ogni dove arrivando quasi a monopolizzare interi palinsesti. In un panorama fortemente condizionato dai talk di certo i fautori della “mancanza di informazione” o delle “leggi bavaglio” sul diritto di cronaca non possono affatto lamentarsi perché l'offerta di contenuti e contenitori è talmente vasta da lasciare l'imbarazzo della scelta. Ma è davvero positiva questa overdose di talk show che vogliono a tutti i costi informare? A mio avviso no di certo, non tanto per la qualità o quantità dei contenuti, ma per l'incapacità di autori e giornalisti di saper differenziare tutti questi talk, i quali si presentano prevalentemente a carattere economico-politico. È palese che il pubblico si trovi in difficoltà dinnanzi ad un'offerta informativa così ampia, sia perché i programmi sono davvero tanti e sia perché nessuno di essi si distingue dagli altri. A questo surplus di talk show si accompagnano anche gli ospiti, i famosi esperti citati poco sopra, impersonati sia dagli onnipresenti politici, che a rotazione fanno le loro comparsate nei vari talk, sia dai cittadini comuni, sempre più spesso intervistati come testimoni degli effetti critici della crisi economica, e sia dai cosiddetti economisti, siano essi giornalisti esperti del settore o docenti universitari pluriacclamati.

Eppure questo atipico contagio dei talk ha avuto un inizio ben specifico, rintracciabile approssimativamente con l'inizio del celebre governo Monti che, oltre ad essere stato uno degli esperimenti politici fra i più fallimentari di sempre, ha avuto l'onere di introdurre nel gergo quotidiano una serie di concetti e parole sino ad allora confinati nel limbo dei tecnici del settore. Tutto ciò ha scatenato nella società il bisogno sempre maggiore di tenersi informati, di imparare e capire nuove parole di stampo economico così come la necessità sempre più incalzante di manifestare il malcontento nei confronti di politiche di rigore ed austerità prevalentemente mal digerite dalla gente. Ecco allora che anche l'informazione televisiva non si è sottratta a questo repentino cambiamento sociale delle tematiche circolanti fra i cittadini e per meglio adempiere al suo ruolo di mezzo di comunicazione la tv ha iniziato a presentare ai telespettatori nuovi programmi d'approfondimento politico, sia per fornire una maggiore possibilità di scelta da parte del pubblico e sia per meglio disquisire delle tante tematiche in voga (nuove terminologie economico/finanziarie, strumenti legislativi/governativi/statali, rapporti europei, privilegi e scandali della casta, governo di larghe intese et similia). Ma il famigerato governo tecnico guidato dal serafico Mario Monti non solo ha sdoganato le nuove parole di natura fiscale e finanziaria ma ha anche comportato una radicale modifica degli equilibri delle forze politiche, sostituendo allo scontro tra fazioni avversarie la cosiddetta sobrietà, sospendendo la naturale diatriba politica con un non ben definito “basso profilo” istituzionale. Questo ha inevitabilmente comportato una radicale manipolazione non solo della comunicazione politica ma anche degli stessi rapporti fra partiti, una rivoluzione talmente estrema da avere persino dato vita ad un governo PD/PdL, ovvero qualcosa di così surreale da non sembrare neppure vero.

Dinnanzi ad un panorama politico così fondamentalmente rivoluzionato, quasi ogni rete televisiva ha accusato il dovere morale di fornire adeguati programmi che permettessero di affrontare i nuovi temi all'ordine del giorno, commettendo però l'errore esposto poc'anzi, ovvero l'incapacità di differenziarsi. Un programma come “Piazzapulita”, nato da una costola del santoriano “Anno Zero”, era stato concepito con una sua specifica identità, cioè quella di dare voce ad una piazza italiana di volta in volta diversa, sino alla quasi definitiva scomparsa di questa marca identitaria per livellarsi agli standard del classico talk politico. Il medesimo discorso vale per “La Gabbia” di Gianluigi Paragone nel quale non si coglie lo spirito che anima il programma, rendendolo perfettamente identico all'onnipresente “Porta a Porta”, giusto per citare un talk rappresentativo. Nessun commento da spendere invece per il “Virus” di Nicola Porro, creato quasi per fare un favore al conduttore piuttosto che per un dovere d'informazione della tv pubblica. Che dire invece di”Coffee Break”, programma delle 9.40 del mattino creato per fare indigestione dopo la colazione? Stessi ospiti, stesse tematiche, stessi servizi/inchieste di qualsivoglia altro talk. Gli unici programmi che in un qualche modo riescono nel non facile tentativo di distinguersi sono “Servizio Pubblico” di Michele Santoro, non tanto per lo stile del conduttore ma per l'ostinazione dello stesso ad affrontare sempre il medesimo tema, cioè la sua iperbolica idiosincrasia per il Cavaliere, e il nuovo “Matrix” di Luca Telese, che ogni tanto affronta argomenti diametralmente differenti dalla politica riuscendo a realizzare ugualmente della buona informazione. La faziosità di “Ballarò” lascia il tempo che trova e nulla aggiunge ai programmi ad esso affini, così come l'”Otto e Mezzo” di Lilli Gruber che almeno si differenzia per non invitare una sequela di ospiti ma uno soltanto, favorendo il dialogo. A supporto dello scontento da parte del pubblico nei riguardi di questa anomala invasione di trasmissioni giornalistiche troviamo i dati Auditel, non proprio lusinghieri poiché i nuovi talk politici non vengono affatto premiati dagli ascolti, eccezion fatta per i sempiterni Porta a Porta, Servizio Pubblico e Ballarò, ormai ampiamente consolidati.

Alla luce di ciò, quali possono essere le condizioni psicofisiche del nostro cittadino bene informato? Di certo sarà un individuo stanco, spossato dalla reiterazione ipertrofica dei medesimi argomenti, ripetuti a oltranza nei vari programmi e questo non può che comportare una perdita di lucidità mentale; poi il nostro cittadino sarà anche disorientato, verrà colto da un forte attacco di labirintite causato da questo ginepraio senza uscita di talk tutti uguali e tutti incapaci di dire alcunché d'interessante; infine, ultimo aspetto, il nostro cittadino risulterà davvero “ben” informato? Ma a pensarci bene, cosa significa essere “ben” informati? Che cos'è la buona informazione e come si fa a realizzarla? Di sicuro non è il sottoscritto che si deve fare carico di fornire la ricetta giusta ma di certo esiste una deontologia giornalistica che in certo qual modo garantisce un grado d'imparzialità e di oggettività nel dare le notizie, permettendo così ai cittadini di potersi creare opinioni autonome sui fatti narrati, senza rischiare d'essere condizionati dalle posizioni di un giornalista. Però questa imparzialità non è affatto sufficiente al fine di garantire una buona informazione poiché servono anche le cosiddette fonti cui si attinge per arricchire la notizia di maggiori dettagli e la scelta delle fonti è del tutto personale, non esistono fonti di serie A e altre di serie B: tutto è a discrezione del giornalista che reputa autonomamente quali fonti sono attendibili e quali no. Il medesimo discorso vale per il cittadino poiché l'attendibilità e l'autorevolezza di un programma d'informazione vanno a suo gusto personale, è lui che decide quale talk è più serio rispetto a un altro. Purtuttavia appare evidente che d'innanzi ad una forte crisi economica i bisogni e le necessità individuali cambiano, sorgono nuove incombenze, nuovi impegni e nuove necessità ed il cittadino, vessato da ben altri problemi, non ha tempo e voglia di sedersi dirimpetto alla tv e sorbirsi l'ennesimo litigio fra politici che invece i problemi dovrebbero risolverli, così come ci si stanca di ricevere lezioncine stucchevoli dall'economista di turno che è stato estrapolato dall'anonimato per essere calato nell'arena mediatica con facoltà di utilizzare il suo quarto d'ora di celebrità per renderci partecipi della sua personale ricetta per uscire dalla crisi; ricetta che immancabilmente va a scontrarsi con quella di un altro economista che, guarda caso, la pensa in maniera diversa.

Pertanto sorge un dubbio: non è che un eccesso di informazione può portare ad un eccesso di disinformazione? Per avere una risposta sarebbe l'ideale rivolgersi a un qualche esperto di comunicazione...

giovedì 10 ottobre 2013

Radio Belva - Recensione

Il 9 ottobre è andata in onda su Rete 4 la prima (e forse ultima) puntata di “Radio Belva”, il primo esperimento televisivo della coppia Cruciani/Parenzo, già conduttori del celebre programma radiofonico “La Zanzara”. Cominciamo col dire che il concept del programma è quello di essere l'”anti-talk”, ovvero una sorta di talk show che, in una certa misura, vuole rompere gli schemi e, a giudicare dallo spettacolo confusionario e nonsense imbastito dai due giornalisti, l'intento è stato pienamente centrato.

A tal proposito però sorge un primo dubbio, di natura puramente concettuale, una pignoleria se vogliamo, inerente proprio la natura di quel format definito talk show : se questo tipo di programma ha come obiettivo unico quello di informare il pubblico tramite la disquisizione di taluni argomenti avanzati da taluni ospiti, ovvero fornire al pubblico un discorso completo in modo che esso possa farsi a sua volta un'idea, di fronte ad un presunto anti-talk l'obiettivo ultimo quale sarebbe? L'anti-comunicazione? L'anti-discorso?

Dico questo proprio perché è stata la prima opinione che mi è balzata per la mente nell'assistere a questa trasmissione che di vero e proprio talk non aveva assolutamente nulla: ciò che davvero si è mostrato è stata un'accozzaglia disomogenea di ospiti, tanto diversi quanto superflui e tutti distribuiti a casaccio in uno studio televisivo talmente traboccante di gente da risultare claustrofobico, i quali sarebbero dovuti intervenire in un dibattito di cui non s'è capito il contenuto. Ma se tutto lo show si fosse ridotto al semplice dibattimento pacato allora non si sarebbe realizzato quel fatidico anti-talk ed ecco allora che si scatena il putiferio giacché i conduttori stessi, armati di irriverenza e di beneamata tracotanza, prima introducono l'ospite e nel momento in cui esso comincia a parlare gli danno addosso con frasi provocatorie velate di pregiudizio, lo sbertucciano pubblicamente con smaccata ironia e lo mettono alla berlina come lo scemo del villaggio nella piazza del paese.

Ma la quantità di ospiti è talmente tanta che, comprensibilmente, ognuno sente il bisogno di esprimere la propria opinione e così nascono i prodromi delle prime risse televisive, con voci che si accavallano, la tensione che sale e il tono generale della trasmissione si surriscalda, come in effetti la scenografia dello studio di Matrix debitamente camuffata suggerisce. A tutto ciò si aggiungono presunti servizi effettuati da ipotetici giornalisti, mini inchieste sullo spreco della politica che vorrebbero scandalizzare ma che invece appisolano lo spettatore che già viene ripetutamente tartassato da valanghe di talk politici incentrati su tagli e sprechi della casta e non è certo un servizio dai toni ludici a sollecitare l'attenzione sul medesimo tema; la baraonda imbastita da Cruciani e Parenzo però non si ferma qui, perché oltre a incrementare il totale caos nello studio la coppia di fatto giornalistica introduce il mattatore Vittorio Sgarbi, il guru delle risse in tv. Infatti è sufficiente stuzzicare un po' il critico d'arte che subito parte la parolaccia e la minaccia facile e se poi gli si affianca la Parietti il gioco è fatto: volano offese pesanti, doppi sensi, altre minacce e si abbozza persino un vero scontro fisico. In una parola: il caos.

Ebbene, ritornando alla perplessità che ho sollevato poc'anzi a proposito dell'anti-talk e di cosa potrebbe significare, mi sembra di poter affermare con una certa sicurezza che l'obiettivo si è rivelato esattamente quello appena descritto: seminare la più totale confusione in studio, provocare gli ospiti non per far esprimere le loro opinioni ma per prenderli per i fondelli in modo plateale. In questo modo, nonostante vi fosse in effetti un preciso argomento di fondo (la strage degli immigrati di Lampedusa e il razzismo) si è ugualmente riusciti a non parlare di nulla: ovvero, non solo si è creato un anti-talk ma si è dato vita anche a un anti-argomento. Perciò, sempre restando nell'ambito della mia personale pignoleria argomentativa, se il tradizionale talk show vuole informare ed allo stesso tempo trarre delle conclusioni dagli argomenti sollevati, l'anti-talk inventato da Cruciani e Parenzo informa senza però fornire un finale, abbozza un discorso senza darne spiegazione, in pratica non mette lo spettatore nelle condizioni di capirci alcunché sui temi trattati.

Perciò, se il talk show informa, l'anti-talk non informa? In linea generale sì, ma in via teorica assolutamente no poiché, come ben sanno i due conduttori che continuo pervicacemente a ritenere intelligenti, è impossibile non-comunicare e quindi è parimenti impossibile non-informare. Si può disquisire sulla qualità della notizia o sul suo contenuto, ma il risultato è comunque quello di avere detto (o fatto) qualcosa, di avere appunto informato.

A questo punto sorge spontanea una domanda: perché? A che pro mettere in piedi questa fiera del trash? A cosa si voleva davvero puntare con questa trasmissione? Alla pessima informazione? Al giornalismo delirante? Al totale smarrimento intellettuale? Se la risposta è affermativa, l'obiettivo è stato centrato in pieno, se invece è negativa allora bisogna ammettere che la situazione è leggermente scivolata di mano ai conduttori che nei loro intenti volevano solo mettere in video quello che facevano in radio, magari in modo più spettacolare ed euforico, ma invece hanno dovuto fare i conti con una creazione televisiva mostruosa che ha travalicato il loro controllo, una sorta di parabola frankensteiniana nella quale il programma è andato per conto suo.

Tirando le somme, due sono gli elementi peculiari che vanno salvati: in primo luogo la volontà di prendere in giro gli ospiti e di sbertucciarli pubblicamente, evidenziando l'infondatezza o la stupidità delle loro convinzioni, poiché sarebbe un sistema di trattamento dell'ospite sinora mai utilizzato ma che in molti talk politici sarebbe davvero il caso di praticare al posto della volontà dei conduttori, a volte troppo malcelata, di mantenere un profilo super partes; in secondo luogo, è da salvare e valorizzare il clima grottesco e surreale che alimenta la trasmissione, costituito sia dallo stile dei conduttori e sia dalla presenza di una serie di personaggi/figuranti travestiti totalmente fuori contesto che, pur non intervenendo, fanno da sfondo alla scenografia, così come si apprezzano oggetti e ninnoli anch'essi decontestualizzati, come il pupazzo di una capretta di fianco allo scranno di Sgarbi, un cesto di fagiolini, un busto di Lenin ed è persino stato riesumato dall'anomia Emilio Fede per appioppargli il compito di inviato speciale nientemeno che nella sede romana di Sel, là dove, stando alle sue parole, “sono tutti rigorosamente comunisti”.

Infine, alcuni semplici e banali consigli: invitare meno ospiti e in particolare evitare Sgarbi perché poi si sa come va a finire e, soprattutto, spostare il programma su Italia 1 in seconda serata, poiché si guadagnerebbe in ascolti e in qualità dei contenuti e delle tematiche trattate.

sabato 28 settembre 2013

Fra Barilla e realtà

Decaduto o non decaduto? E le nozze di Belen, belle vero? Ma il governo cade o non cade? E del presunto maltrattamento del bimbo ad “S.O.S. Tata” ne vogliamo parlare?
In un paese in grave recessione dovuta a quell'onnipresente crisi economica che stiamo vivendo, gli argomenti che più fomentano la cittadinanza sono proprio questi: inezie da poco conto, quisquilie superflue che altro non fanno che alimentare il gossip. A rincarare la dose ci mancava solo Barilla con l'esternazione del patron Guido a proposito della “tradizionale” famiglia messa in mostra nei suoi spot: “Non metterei in una nostra pubblicità una famiglia gay perché noi siamo per la famiglia tradizionale. Se i gay non sono d'accordo, possono sempre mangiare la pasta di un'altra marca”, sentenziò Guido Barilla al programma radiofonico “La Zanzara”, scatenando un sacco di polemiche e fomentando la classica divisione fra coloro che appoggiano l'idea della cosiddetta famiglia tradizionale e quelli invece che danno lezioni di sociologia ricordandoci che le famiglie in realtà sono di tanti tipi diversi, senza che vi sia una concezione univoca sull'idea stessa di nucleo famigliare.

Ma il concetto sollevato da Barilla, a mio avviso, non si pone affatto su un livello socio-antropologico di fondo, bensì è di tipo puramente commerciale. Barilla, come qualsivoglia altra marca, veicola determinati valori ed allo stesso tempo si rende disponibile ad un'investitura di valori provenienti proprio dai consumatori, generando così una sorta di “patto comunicativo”, di contratto fra produttore e consumatore oppure, detto in termini tecnici, fra enunciatore ed enunciatario, legati assieme dal discorso di marca (l'enunciato). Trattasi dell' ABC dell'analisi del marketing e del discorso di marca in generale e stupisce come le dichiarazioni di Guido Barilla tanto facciano discutere: la marca Barilla ha deliberatamente deciso di rappresentare un tipo di famiglia e del resto non avrebbe di certo potuto rappresentarli tutti. Vale lo stesso discorso per altre marche, come Nike, che in ogni spot ci propina atleti intenti a destreggiarsi in qualche sport, come dire che per indossare scarpe Nike bisogna per forza essere degli sportivi. È evidente che le cose non stanno affatto così: se Nike ha scelto di rappresentare nei suoi spot l'utilizzatore tipo dei suoi prodotti (lo sportivo), Barilla ha deciso di raffigurare la famiglia tipo per il consumo della sua pasta (padre, madre e figli/o). Si tratta di un discorso inclusivo e non esclusivo poiché queste scelte non escludono aprioristicamente qualsivoglia altro consumatore, ovvero un consumatore diverso da quello presente nel discorso pubblicitario. Nessuno vieta a nessuno di utilizzare alcunché e stupisce ancor di più come i consumatori omosessuali solo ora si accorgono del tipo di famiglia veicolata da Barilla: se davvero è presente il sopraccitato patto comunicativo, anche i consumatori omosessuali hanno deliberatamente accettato le condizioni di questo contratto, sono stati accondiscendenti, hanno recepito positivamente quell'immagine di nucleo famigliare che proprio adesso si ritrovano a contestare.

In definitiva, Guido Barilla non ha fatto altro che ribadire l'idea veicolata dal marchio sulla famiglia, ed è un'idea soggettiva, arbitraria, propria della marca in questione; è un valore in cui crede e nel quale ha fondato il proprio nome: trattasi di idea personale, di libera manifestazione del pensiero, non invece di un diktat politico, di un'impostazione culturale obbligata. E per rimarcare ancor di più l'ovvietà di questo discorso, non bisogna dimenticare che la pubblicità parla un linguaggio tutto suo, fatto di miti e di iperboliche capacità del prodotto, il tutto inserito in un contesto fantastico, surreale, immaginario, che nulla ha da spartire con la realtà: se il discorso pubblicitario si limitasse a perseguire pedissequamente il reale non vi sarebbe alcun bisogno della pubblicità stessa e delle logiche del marketing. Invece, ogni marca è libera di veicolare i valori che desidera così come ogni consumatore è altrettanto libero di condividere o respingere quei valori, ritrovandoli magari in una marca diversa: ad esempio, il sottoscritto preferisce la marca “Garofalo”.

venerdì 13 settembre 2013

Forum - Recensione

Dedichiamoci ora all'analisi di uno dei più longevi programmi delle reti Mediaset, ovvero il tribunale televisivo di “Forum”, un format evidentemente assai vincente poiché viene riproposto sistematicamente ormai da più di 20 anni. La formula del programma, per chi non lo conoscesse, è in se molto semplice: vi sono due contendenti che espongono un determinato fatto ad un giudice, esponendo rispettivamente la propria versione dell'accaduto ed avanzando conseguentemente diverse richieste per la risoluzione dello stesso. Il giudice, dopo essersi appartato in “camera di consiglio”, esporrà la propria sentenza a favore di uno o dell'altro contendente.

Questa impostazione dello show è risultata di notevole interesse, poiché “Forum” rappresenta il primo tentativo di introduzione della dottrina del diritto nel vasto e variegato panorama della televisione, poco incline a contenuti culturali o di divulgazione scientifica, in particolare sulle reti commerciali del biscione. Purtuttavia, questo esperimento sembra essere riuscito bene giacché, come già accennato, il pubblico lo apprezza e continua a seguirlo con una certa costanza, nonostante negli anni la formula del programma sia stata più volte maneggiata, pur senza snaturarne la struttura portante. Questi cambiamenti contenutistici sono spesso stati propedeutici sia ad un rinnovamento del programma stesso e sia utili (e necessari) all'avvicendamento delle diverse conduttrici che hanno prestato il loro volto alla trasmissione. Ad ogni cambio di conduttrice è di solito seguito anche un cambio dello show: non è stata sempre la norma ma si è ripetuto diverse volte. È perciò anche questo il caso di Barbara Palombelli, nuovo volto della trasmissione che prende il posto di Rita Dalla Chiesa che abbandona il programma dopo 10 anni.

Bisogna primariamente affermare che il pretesto del programma è quello di disquisire di diritto con il pubblico, attingendo dalla Costituzione italiana e dal Codice civile in primis: i dibattimenti introdotti dallo show si rivelano perciò propedeutici a discussioni di natura legislativa di base, casi elementari sui quali qualsivoglia cittadino può ritrovarsi coinvolto e, parallelamente, incentivare il coinvolgimento diretto dello spettatore, il quale non potrà sottrarsi dal tentativo di prendere posizione per uno dei due contendenti. Ecco quindi che, sino all'ultima edizione condotta da Rita Dalla Chiesa, i protagonisti di “Forum” altro non erano che figuranti dotati di un copione e indottrinati alla personificazione di un soggetto avente un qualsiasi problema con un rivale: poco importava la natura del problema o la gravità dello stesso, in ogni caso bisognava discuterne in televisione. Questo particolare diviene di primaria importanza poiché ci rimanda a quell'aspetto di infotainment che, inevitabilmente, rischia di sfociare nella cosiddetta “tv del dolore” di cui già ci siamo occupati in passato. Nel nostro caso, l'esame diviene complesso perché se è vero che le storie raccontate a “Forum” sono del tutto inventate, è altresì vero che queste messinscene stanno alla base di una funzione informativa, didattica dello show: in poche parole, storie false ma conseguenze e spiegazioni (plausibilmente) vere. Vere perché giuridicamente fondate, scientificamente approvate. L'intento quindi non è coinvolgere patemicamente lo spettatore, crogiolarlo in un'empatia complice con l'attore/contendente in studio, ma indottrinare il pubblico snocciolando informazioni di carattere giuridico, divulgandone la cultura. A latere di questa visione, forse per alcuni un po' troppo buonista, non bisogna comunque dimenticare il sostrato di surrettizia “menzogna”, l'evidente falsità d'intenti dei contendenti, presenti in studio solo per l'esposizione di una causa fittizia. Perciò, se ci dovessimo appellare eminentemente a quest'ultimo aspetto, il programma diverrebbe semplicemente una grande pantomima, e i giudici (veri) starebbero al gioco. Una visione decisamente rispettabile, e probabilmente molto vicina alla realtà, ma che in ogni caso non prende in considerazione la sopraccitata funzione didattica e informativa, che comunque viene fornita al termine di ogni causa.

Qualsiasi sia la posizione che si decide di prendere, resta indiscusso il fatto che l'intento del programma è quello di informare e l'atto stesso di informare prevede dati certi, comprovati ed accettati come nel caso della materia del diritto. In altre parole: qualsiasi sia la natura della causa messa in scena nel programma (vera o appositamente inventata), così come la natura dei contendenti (veri o attori che siano) il fine ultimo della trasmissione è l'informazione, non una a caso ma quella giuridica. Questo risulta quindi l'aspetto saliente del programma che, in quanto tale, deve altresì intrattenere un pubblico televisivo e non limitarsi pedissequamente a divulgare leggi, sentenze, commi, articoli et similia. Ecco quindi che ritorna in gioco la causa messa in luce dai contendenti, che risulta utile anche al pubblico in studio sia per prendere posizione e sia per dare adito ai ragionamenti più disparati, talvolta eccessivi, talaltra chiassosi, sfociando così nella rissa televisiva tanto cara al trash. Al di la dell'effetto che scatena la discussione in studio, possiamo individuare due ruoli giocati dalle cause di “Forum”: il primo è essenzialmente utile ad incentivare il contraddittorio, mettendo in evidenza le diverse problematiche di tutti i giorni nelle quali tutti possiamo essere coinvolti; il secondo è un ruolo appunto divulgativo, poiché proprio a questo servono le cause portate in televisione dai contendenti.

Ma nell'edizione condotta da Barbara Palombelli il contenuto del programma subisce diverse variazioni, accentuando primariamente il suo carattere informativo: le cause non solo adempiono ai ruoli sopraccitati ma sono utili all'introduzione in studio di esperti vari che propongono la loro versione professionale sul dibattimento in corso, così come a queste figure si affiancano soggetti rimasti coinvolti in prima persona in casi analoghi a quelli trattati; allo stesso modo, la trasmissione si è aperta (nuovamente, poiché già era accaduto in una delle edizioni condotte da Paola Perego) anche ad interventi d'aiuto provenienti dall'esterno, ovvero cittadini/e che si rivolgono direttamente al giudice per avere un parere tecnico in merito ad un certo problema.

La seconda modifica dello show è relativa ai contendenti stessi, e per forza di cose anche alle cause: diviene ora difficile stabilire aprioristicamente se i soggetti siano dei figuranti ammaestrati oppure veri contendenti: resta il fatto che, qualora essi siano effettivamente sinceri, viene dimostrata una certa naturalezza nell'esposizione di temi a volte così personali ed intimi dinnanzi ad un anonimo pubblico televisivo, corroborando così, ancora una volta, quel sottile confine che separa la tv di informazione dal più banale infotainment. La drammaticità dei temi trattati, sovente davvero troppo crudi e lacrimevoli, rassomiglia vagamente a quel modo di fare tipicamente defilippico, già trattato nel post di C'è posta per te: il parossismo delle tematiche sfocia nel dramma praticamente in ogni puntata, con tanto di ospiti in lacrime, videomessaggi nostalgici con musiche strappalacrime in sottofondo e, come già accennato, riottosi battibecchi fra il pubblico.
Se da un lato l'aspetto informativo risulta rinforzato, dall'altro lato l'aspetto spettacolare delle cause viene parimenti accentuato, con l'effettivo risultato di uno sbandamento nel trash e nella becera tv del dolore, indipendentemente dalla veridicità sia delle cause che dei contendenti.

Un ultimo commento spetta a Barbara Palombelli, alle prese con la sua “prima volta” alla conduzione di un intero programma tutto suo ed in questa nuova veste essa mette in evidenza alcuni pregi e difetti: fra i pregi vi è senza dubbio l'essere precisa e circostanziata nell'esposizione delle cause e nel dare spazio agli ospiti ed agli esperti; fra i difetti va notato il suo non essere avvezza ai ritmi televisivi, come quando si accavalla sui discorsi altrui senza smettere di parlare oppure quando, per adempiere al suo ruolo di conduttrice, non sa come riempire alcuni vuoti nella trasmissione, lasciandosi andare in sconnessi giri di parole senza poi avere detto nulla oppure, ancora, quando giunge il momento dello stacco pubblicitario non lo annuncia affatto, limitandosi a dare l'appuntamento “a fra pochissimo”, senza spiegare perché.

lunedì 15 luglio 2013

Ladri di saponette - Un'analisi semiotica

Nel precedente post ho accennato alla dicotomia chiave del nostro discorso, ovvero quella fra linguaggi discorsivi strettamente legati alla realtà fenomenologica e quelli invece ascrivibili a realtà altre, fantastiche, meramente spettacolari. Se il film Ladri di biciclette, in quanto pellicola neorealista, è affine alla prima pratica discorsiva, il film Ladri di saponette di Maurizio Nichetti può a buon titolo inserirsi in una posizione mediana, ovvero a metà strada fra un linguaggio pedissequamente affine al reale (neorealista) ed un linguaggio artificioso, spettacolare, in alcuni momenti persino autoreferenziale e metacomunicativo. Possiamo perciò affermare che la pellicola di Nichetti, lungi dall'essere paragonabile agli stilemi neorealisti, si ritrova ad essere contagiata da elementi di questo movimento cinematografico, essa è infarcita di rimandi, suggerimenti, indizi a tal punto che possiamo a buon titolo parlare di contaminazione neorealista. Il discorso è assai complesso ma cercherò di semplificarlo e sintetizzarlo il più possibile, cercando di non comprometterne la comprensione.

Dobbiamo primariamente partire da un presupposto puramente temporale: la pellicola di Nichetti è datata 1989 mentre quella di De Sica risale al 1948, perciò questa abissale differenza testimonia sin da subito le naturali difformità stilistiche e contenutistiche che contraddistinguono questi film. Non vi possono perciò essere affinità di alcuna sorta fra di esse, proprio in virtù dell'abisso temporale che non può non rendere i due film assai diversi fra loro; possiamo invero riconoscere nel film di Nichetti, come poc'anzi anticipato, una contaminazione neorealista, ovvero un'approssimazione stilistica a questo movimento filmico: Ladri di saponette ricalca, solo in parte e solo nei primi istanti del film, la pellicola di De Sica, sia nei nomi dei personaggi principali e sia nella narrazione della storia. Nichetti epigono di De Sica? Imitatore senza fantasia? Non esattamente, pur essendo questo pensiero più che legittimo. Il discorso è in verità molto più complesso poiché l'intento di Nichetti non è quello di rievocare il movimento neorealista con una pellicola che ne ricalca i tratti distintivi, bensì la volontà di ricorrere a questo filone discorsivo con lo scopo di costruirvi sopra un secondo linguaggio, un discorso diverso, contemporaneo, commerciale, che va ad aggiungersi a quello neorealista. Ecco perciò che il ricorso agli stilemi neorealisti è solo un pretesto per dare vita ad una riflessione ben più ampia su altri tipi di linguaggi: quindi, come più volte ho sottolineato, la pellicola in questione realizza un metadiscorso, ovvero cerca di comunicare un'idea sul cinema utilizzando un movimento cinematografico. Il film parla del suo stesso mondo così come, allo stesso tempo, esso è pure autoreferenziale, poiché pregno di autocitazioni ed autoriferimenti. Abbiamo perciò un discorso sul discorso di un discorso. Questo apparente virtuosismo pleonastico è invece il discorso o, meglio, il meta-discorso, che Nichetti imbastisce nella realizzazione del suo film e che possiamo sinteticamente così riassumere:
A. discorso afferente al filone neorealista, con il richiamo al film di De Sica nelle prime sequenze del film;
B. discorso relativo alla critica, tramite l'aggancio neorealista, al rapporto fra cinema, televisione commerciale e pubblicità;
C. discorso inerente all'autoreferenzialità da parte del regista che si autocita nella pellicola e che rimanda a suoi precedenti discorsi filmici.

Diviene ora opportuno accennare brevemente alla trama del film di Nichetti: il regista stesso, autore del film Ladri di saponette, viene invitato in uno studio televisivo di un programma che parla di cinema dove il critico Claudio G. Fava, che interpreta se stesso, presenta al pubblico il film con tanto di commento personale. Senza che il regista dica una parola, al termine della presentazione del critico parte la messa in onda del film che però viene continuamente interrotto dagli spazi pubblicitari che, secondo le proteste del regista, impediscono al pubblico di capirne appieno la trama. Ad un certo punto si verifica in studio un blackout, la corrente salta e tutto si ferma; ma al ritorno dell'energia elettrica accade l'impossibile: i personaggi delle pubblicità hanno invaso il film e, allo stesso modo, i protagonisti del film hanno contaminato le pubblicità, dando così vita ad una curiosa mescolanza di ruoli e di stili narrativi assai differenti. In tal modo cinema, televisione e pubblicità vengono fusi assieme e con loro i corrispettivi linguaggi discorsivi, con l'infelice risultato che la trama del film si ritrova inevitabilmente compromessa e le vicende non vanno come dovrebbero andare. Tutto si mescola, nessun discorso funziona come dovrebbe funzionare, i personaggi passano da un mondo all'altro, da una sceneggiatura all'altra, sfilacciando così una pratica narrativa inizialmente lineare e coesa. Ma, contemporaneamente, l'impostazione narrativa di Nichetti si concentra anche su di un altro contesto, quello di una famiglia intenta a guardare la televisione in salotto e che vive ogni istante performante e deformante del film, dalla sua messa in onda inizialmente lineare e coerente sino alla segmentazione della trama. Anche in questo caso ritengo opportuno, per meglio comprenderne l'impostazione, suddividere il film in tre sezioni narrative, corrispondenti ad altrettanti tempi, luoghi e attanti così definiti:
  • sezione narrativa 1: è rappresentata da quello che possiamo definire il mondo reale, ovvero il tempo e il luogo iniziali del film dove si situano lo studio televisivo e i personaggi di Nichetti regista, del critico Claudio G. Fava e dei vari assistenti e tecnici di studio. Possiamo inserirvi inoltre anche il salotto della famiglia di telespettatori poiché, seppur ubicati in un ambiente differente, sono comunque calati nel mondo reale. Questa prima sezione narrativa combacia con l'inizio del film, perciò viene naturale supporre che sia questo il contesto principale della storia, poiché tutte le vicende successive hanno luogo da esso;
  • sezione narrativa 2: è quella relativa alla messa in onda del film Ladri di saponette: trattandosi di un metadiscorso, dal contesto del mondo reale se ne dipana un altro, quello del film recensito dal critico Fava in studio. Perciò, durante la visione del film Ladri di saponette avviene una messa in onda (a partire dal medesimo contesto) di un altro film avente il medesimo titolo del precedente. In altre parole, il vero titolo della pellicola si riferisce al film messo in onda nella pellicola stessa: Ladri di saponette è sia il film che io spettatore mi sto guardando in questo momento ma è anche (e soprattutto) il film di cui si parla all'interno della pellicola;
  • sezione narrativa 3: è quella inerente la pubblicità che, con insistenza, continua persistentemente ad interrompere la messa in onda del film (nel film) compromettendone la comprensione da parte del pubblico. Sospendendo momentaneamente ed improvvisamente il film, si passa con repentina celerità da un discorso narrativo all'altro, dal film alla pubblicità. Il distacco è particolarmente netto poiché se il discorso filmico abbisogna di tempi e tecniche opportuni per adempiere al suo linguaggio ed alla trama, il discorso pubblicitario ne risulta totalmente differente, presentandosi invece assai veloce, tempestivo, rapido, fulmineo. Il film ha bisogno di tempo per farsi capire e perciò necessità di un linguaggio ricercato; la pubblicità è invece di durata incredibilmente più breve e quindi più risulta di semplice approccio e più sarà incisiva per gli spettatori.
Questi continui passaggi da un contesto ad un altro sono semioticamente definiti operazioni enunciazionali e fanno prevalentemente riferimento all'aspetto temporale, già ampiamente ricordato nel corso della nostra trattazione. Queste difformità temporali ci inducono a suddividere il tempo del discorso in due parti, una definita embrayage, in riferimento all'io-qui-ora dell'istanza dell'enunciazione ed individuabile nel nostro caso nello studio televisivo e nel salotto della famiglia, ovvero quello che abbiamo definito “mondo reale”. Da questa prima aspettualizzazione temporale se ne dipana una seconda, definita débrayage, ovvero la proiezione di tempi, spazi e attanti diversi dall'istanza dell'enunciazione: nel nostro caso, il débrayage lo si rintraccia sia nella messa in onda del film nel film e sia negli stacchi pubblicitari, fulminei ed improvvisi. L'aspetto curioso di questo film di Nichetti risiede nel fatto che al débrayage relativo alla messa in onda del film non corrisponde l'embrayage del mondo reale ma si passa direttamente ad un secondo débrayage, quello pubblicitario: solo quando anche quest'ultima digressione temporale è compiuta allora si ritorna all'istanza dell'enunciazione. In definitiva, Nichetti allestisce una girandola di embrayage e di débrayage, di continui via vai enunciazionali, di perpetue uscite ed altrettanti rientri temporali in un gioco a dir poco funambolico e confusionario dal punto di vista tecnico tale da arrecare danno alla trama stessa del film, la quale si ritrova contaminata di attanti afferenti a tutti e tre i contesti discorsivi.

Oltre a presentare un costrutto discorsivo e narrativo peculiare, il film di Nichetti risulta anche autoreferenziale, ovvero il regista si autocita nella sua stessa opera: infatti, il protagonista del mondo reale è Nichetti regista, così come il critico cinematografico presente in studio, Claudio G. Fava, è effettivamente un vero critico, impersonando quindi se stesso; possiamo inoltre rintracciare in tutta la pellicola altri rimandi e riferimenti a precedenti opere di Nichetti, come ad esempio la famiglia di telespettatori che è la stessa vista nel film Ho fatto splash del 1980 e, sempre dello stesso film, è anche il recupero di una pubblicità fasulla di una bevanda, il cui motivetto viene riutilizzato in Ladri di saponette. Questi perpetui rimandi, come abbiamo già avuto modo di testimoniare, evidenziano il carattere autoreferenziale che il regista ha deciso di donare alla pellicola, senza perciò distanziarsi da quell'impostazione a metà strada fra un linguaggio legato al reale ed un linguaggio da esso (quasi) slegato. Ma le citazioni che Nichetti inserisce nel film non si limitano a se stesso ed alle sue precedenti opere giacché si rivolgono anche alla pellicola di De Sica dalla quale, come detto, riprende i nomi dei protagonisti (Antonio, il padre, Maria, la madre, e Bruno, il figlioletto) così come rievoca in maniera più o meno fedele alcune scene di Ladri di biciclette, in particolare due: la sequenza iniziale è pressoché identica a quella del film di De Sica, ovvero quando un impiegato dell'ufficio di collocamento chiama ad alta voce i nomi dei “fortunati” ai quali è stato assegnato un lavoro; mentre la seconda sequenza richiamata da Nichetti si riferisce al dialogo avuto fra Antonio e un ufficiale di polizia al momento della denuncia. In entrambe le scene Nichetti riporta quasi fedelmente non solo i personaggi ma anche le battute. Vi è però una sostanziale differenza formale nell'opera di Nichetti: mentre De Sica consente al protagonista di godere, almeno inizialmente, di una certa dose di serenità grazie al lavoro appena trovato ed alla bicicletta acquistata con fatica, Nichetti dona alsuo Antonio un senso di frustrazione derivante dall'impossibilità di trovare lavoro, testimoniato dalle inquadrature che ci mostrano Nichetti/Antonio vagabondare da un posto all'altro questuando un lavoro ma ogni qualvolta esso viene respinto. Ad entrambi i protagonisti viene tolto e concesso qualcosa, in modo quasi speculare:
  • Antonio di De Sica inizialmente non possiede una bicicletta e neppure un lavoro, mentre Antonio/Nichetti possiede già una bicicletta ma non un lavoro;
  • successivamente, Antonio di De Sica si ritrova privo di bicicletta ma con ancora il lavoro mentre Antonio/Nichetti si ritrova senza lavoro ma con ancora la bici;
  • infine, Antonio di De Sica non riesce nell'intento di ritrovare la sua bici, pur mantenendo il lavoro, mentre Antonio/Nichetti non solo non perde mai la bici ma ottiene addirittura dei beni di consumo e cibi vari non guadagnati grazie al lavoro ma ottenuti tramite la contaminazione “magica” del mondo pubblicitario nel film.
Queste continue relazioni di congiunzione e disgiunzione dagli Oggetti di valore (Ov) ci consentono di individuare i Programmi Narrativi (PN) dei personaggi i quali, come abbiamo appena visto, cambiano di continuo:
  • Antonio di De Sica sente la necessità di rendere la propria vita più dignitosa, per sé e per la propria famiglia (PN principale), ma per fare ciò deve ottenere un lavoro che gli consenta di raggiungere tale obiettivo (PN d'uso). La bicicletta gli torna utile, per non dire essenziale, al fine di garantirsi l'occupazione, perciò tale mezzo diviene l'Ov dell'attante;
  • Antonio/Nichetti persegue il medesimo obiettivo di Antonio di De Sica, sia per quanto riguarda il PN principale e sia per quanto riguarda il PN d'uso. Il ruolo che precedentemente era svolto dalla bicicletta ora viene svolto dalla moglie Maria, la quale si ritroverà coinvolta nell'immaginario mondo a colori delle pubblicità ed indurrà Antonio/Nichetti a cercarla disperatamente. Perciò, Maria diviene l'Ov del film di Nichetti, essendo essa l'elemento di giunzione e di coesione della famiglia. Inoltre, nell'opera di Nichetti possiamo individuare un secondo Ov, rappresentato dal lampadario di vetro tanto desiderato dalla moglie Maria. Tale Ov assume un significato non tanto per Antonio/Nichetti, che vede in esso l'ennesimo PN d'uso utile alla serenità famigliare, quanto per Maria stessa, che investe questo oggetto di una valorizzazione puramente personale.
In entrambi i film, inoltre, è presente un attante che svolge il ruolo di aiutante, impersonato dal figlioletto Bruno: tale personaggio è talmente simile nelle due pellicole, tanto nella figura quanto nel nome, da indurci a ritenerlo un attante duale; tuttavia, occorre sottolineare che tale attante duale si riferisce a personaggi appartenenti ad opere diverse, perciò questa valorizzazione si ascrive solamente al personaggio in quanto ruolo narrativo e non al personaggio in quanto attore. Invece, possiamo a buon titolo parlare di attante duale in riferimento a Nichetti, il quale nel medesimo percorso narrativo svolge sia il ruolo di regista del film e sia il ruolo di Antonio.

Infine, per concludere il discorso sugli attanti, in questa pellicola sembra apparentemente omessa la figura dell'antagonista, ovvero di quell'attante che persegue un PN contrario a quello del Soggetto. Ebbene, pur non rintracciando nella pellicola di Nichetti un personaggio investito di tale ruolo, possiamo desumere che l'Antisoggetto sia impersonato proprio dagli stessi spot pubblicitari: infatti, mentre Nichetti/regista persegue come PN principale l'esigenza di vedere il suo film mandato in onda per intero e senza distorsioni della trama, le interruzioni pubblicitarie perseguono l'esatto contrario, ovvero non fanno altro che interrompere la messa in onda del film sino a contaminarne la trama e l'intreccio. La fine del film sembra però non lasciare spazio ai dubbi: le pubblicità infatti sembrano avere irrimediabilmente compromesso l'intera struttura narrativa del film nel film poiché non ci viene concesso di sapere né se Nichetti/regista riuscirà ad uscire dal suo film, né se i personaggi delle pubblicità se ne ritorneranno nel loro mondo immaginifico, né se la moglie Maria resterà ancora insieme al marito o se lo lascerà per una carriera nel mondo dello spettacolo. In certo qual modo questo finale richiama il senso di smarrimento ed angoscia che suggerisce il film di De Sica, giacché Antonio e il figlio Bruno non riescono a ritrovare la bicicletta rubata.

Ma alla funzione narrativa Nichetti affianca anche un'aspra critica al cinema ed alla televisione, in una duplice relazione di complice colpevolezza: l'una è stata in grado di incidere sul discorso filmico a tal punto da spezzettarne le trame con i continui spot pubblicitari, pregiudicandone la comprensione e rischiando di allontanare il pubblico dalla visione del film; l'altro non è stato in grado di impedire questo prepotente controllo televisivo, dimostrandosi incapace di escogitare delle adeguate difese per preservare la propria dignità artistica. Ed ecco allora che la succitata contaminazione neorealista si viene a spiegare non solo come pretesto per la costruzione di un discorso sul discorso, ma serve soprattutto da contrafforte alla pesante critica avanzata da Nichetti che con l'emulazione dei nomi dei personaggi e delle prime vicende della pellicola, del tutto simili a quelle di Ladri di biciclette, vuole sia richiamare alla memoria dello spettatore i bei tempi che furono, i tempi gloriosi del cinema italiano, quando il neorealismo faceva scuola a livello internazionale, e sia rammentare allo spettatore come le condizioni odierne del cinema siano così peggiorate, a tal punto da piegarsi alle volontà e necessità delle logiche televisive. Se il cinema è un'arte, e se il film Ladri di biciclette viene unanimemente ritenuto un capolavoro (perciò un'opera d'arte) del neorealismo, com'è allora possibile che tale opera possa essere spezzettata, sezionata in porzioni dalla televisione al solo scopo di mandare in onda fugaci spot pubblicitari? Come possono l'estetica pubblicitaria, l'estetica del consumo, l'estetica dell'immagine prevale sulle opere d'arte e sulla loro fruizione? È perciò questa la direzione del cinema italiano? La segmentazione del prodotto filmico per fasce di audience, esattamente come avviene per qualsivoglia prodotto commerciale? Si è arrivati al punto in cui un film deve piacere ancora prima di suscitare riflessioni sui suoi contenuti?
Queste domande sono probabilmente destinate a restare senza risposta, ma se anche vi fossero delle risposte sarebbe purtroppo tutte affermative. Ammetto che questi interrogativi possono risultare pressoché stucchevoli e a loro volta provocatori ma ritengo che, al di la del sofisma di questi quesiti, la critica di Nichetti risulti sufficientemente chiara ed esplicita.

Ladri di saponette - Premessa

Affrontiamo ora un tema particolarmente interessante, sotto due aspetti: sia per quanto concerne il carattere meramente contenutistico e sia per quello che riguarda il carattere discorsivo. Nel trattare questa tematica, che in certo qual modo si dipana attraverso due livelli narrativi e stilistici, non si può non accennare all'importanza precipua della temporalità, almeno dal punto di vista della discorsività: l'utilizzo dell'elemento-tempo nei diversi linguaggi in cui può esprimersi un racconto ricopre una centralità imprescindibile, sia perché di esso non se ne può fare a meno (le nostre stesse vite inserite nella quotidianità scorrono sui binari del tempo) e sia perché nell'imbastire una narrazione si vivifica quel concetto di schizìa creatrice, dando i natali a mondi e personaggi altri, diversi dalla realtà, talora invero simulacri di personaggi realmente esistenti. Perciò, il discorso-tempo diviene di primaria importanza qualora ci si ritrova ad affrontare tematiche relative a narrazioni di qualsiasi sorta, tenendo bene a mente che il linguaggio discorsivo risulta talvolta nettamente slegato dalla realtà e sovente strettamente connesso (o inter-connesso) alla realtà, spaziando in quest'ultimo caso nell'ampio filone della metacomunicazione e dell'autoreferenzialità.

Come avrò modo di evidenziare in seguito, il nostro discorso tende a considerare entrambi gli aspetti, attingendo sia da quella narrazione completamente slegata dai referenti reali e sia da quei sistemi narrativi connessi col reale. Per meglio comprendere ciò che si andrà ad esplicare, è opportuno illustrare questa doppia articolazione, incentrata sul sistema narrativo e discorsivo del cinema e che prende in esame due pellicole-simbolo, entrambe assai rilevanti in merito agli aspetti sopraccitati (contenuto/discorso).

La prima pellicola cui mi riferisco è Ladri di biciclette, uno tra i film più rappresentativi di quel movimento neorealista italiano che nel cinema del dopoguerra ha tanto prosperato sia nella cultura italica che nell'industria di settore. Ladri di biciclette esprime ottimamente gli stilemi fondamentali di questo movimento cinematografico, a cominciare proprio dai contenuti stessi della pellicola, inerenti in particolar modo alle condizioni di disagio della popolazione italiana negli anni del dopoguerra, una situazione aggravata sia dalla desolazione del paesaggio urbano deturpato dai bombardamenti e sia dalle estreme difficoltà che si incontravano nella ricerca e nell'ottenimento di un lavoro. Ma nella narrazione del disagio sociale vi si poteva anche scorgere la volontà di riscatto, l'esigenza di ricominciare e di attribuire dignità alla propria condizione di indigenza. Questa pellicola sottolinea appieno tali aspetti e pone anche l'accento, come suggerisce il titolo stesso, all'importanza utilitaristica di un mezzo di locomozione come la bicicletta, spesso ritenuto un mezzo di trasporto debole, ultra economico o affatto funzionale per le frenetiche esigenze di mobilità del lavoratore contemporaneo. Negli anni dell'immediato dopoguerra diveniva invece difficile persino raccattare un mezzo così infimo come una misera bicicletta, misero ma invero di grande importanza poiché, esattamente come evidenziano i dialoghi del film, se il protagonista Antonio non si fosse presentato il mattino successivo munito di bici il lavoro l'avrebbe perduto e sarebbe stato affidato a qualcun altro. Se prima Antonio, insieme alla moglie Maria, riesce ad acquistare un velocipede racimolando qualche soldo, in seguito egli si ritroverà privato del mezzo per via di un furto perpetrato da un mariuolo, destinando il povero protagonista ad una disperata quanto vitale ricerca del mezzo per le strade di Roma. La pellicola è altresì costellata di altri elementi neorealisti, come il degrado urbano, le faziosità fra cittadini anch'essi indigenti, l'uso perpetuo del parlato romanesco che dona alla narrazione una forte prossimità culturale e territoriale, così come riesce allo stesso tempo ad esaltare proprio la condizione di disagio sociale, testimoniata da una bassa cultura e da una scolarizzazione pressoché assente. Il dialetto è così il solo modo che i poveretti conoscono per comunicare e per farsi capire, è il sistema più immediato per relazionarsi e proprio per questo il più povero, il più misero, perché non derivante da processi di scolarizzazione e di insegnamento, ma il risultato delle naturali pratiche sociali e culturali, elementi endemici di qualsivoglia territorio o regione del mondo.

Per quanto riguarda invece la mera tecnica filmica, il film di De Sica poggia le sue basi sul ruolo che Cesare Zavattini assegnava alla macchina da presa, la quale doveva essere impiegata per quella pratica di “pedinamento del reale”, dove l'attore stracciava (metaforicamente) il copione e dove l'occhio della cinepresa si concentrava sullo spettacolo della quotidianità, riuscendo a cogliere i numerosi aspetti del reale, accantonando ogni artificio visivo o sensazionalismo scenico. L'attore veniva perciò ripreso da vicino, ai continui primi piani si alternano inquadrature panoramiche che seguono i personaggi in ogni loro azione, permettendo così di focalizzare l'attenzione dello spettatore proprio sulla quotidianità della vita, sulla naturalezza delle azioni, dei movimenti, senza evitare di accantonare i momenti morti ma, al contrario, enfatizzando le pause dei dialoghi e la lentezza degli avvenimenti, il tutto a servizio del solo perseguimento dell'obiettivo cardine del pensiero di Zavattini, ovvero non l'enfatizzazione del reale ma, al contrario, mostrare la realtà così come appare, penetrare nell'ordinario per coglierne l'essenza. In questo modo lo spettatore assiste a una narrazione che potremmo definire “in tempo reale” tanto la telecamera resta incollata ai personaggi; questo assunto del pedinamento del reale può essere esplicato in termini semiotici con il concetto dell'aspettualizzazione temporale di tipo durativo, poiché si assiste agli eventi nel loro dispiegarsi, ovvero nell'istante stesso in cui accadono, senza ulteriori digressioni spazio-temporali. Perciò, ritornando alla dicotomia avanzata poc'anzi fra i linguaggi legati e non legati alla realtà, con questa pellicola ci ritroviamo d'innanzi ad un chiaro esempio di discorso strettamente connesso con il reale, talmente connesso da accentuarne in maniera quasi estrema la naturalezza, l'intima normalità, svincolandosi da qualsivoglia pratica spettacolare per mettere in luce invece la purezza della realtà così come appare, senza artifici o quant'altro.
Riscontriamo perciò nella pellicola di De Sica numerosi aspetti del cinema neorealista, sfortunatamente l'unico vero movimento cinematografico italiano che ha saputo lasciare il segno nella cultura del nostro paese e che ha inevitabilmente contaminato una sequela di registi appartenenti alle nuove generazioni, così come è stato in grado di imporsi all'attenzione della cinematografia mondiale. Sottolineo l'importanza di questo movimento, e lo considero tale, se non altro perché è davvero l'unico modo, l'unica maniera, di fare cinema che ha saputo contraddistinguersi ed imporsi con prepotenza negli anni del dopoguerra, parallelamente al fatto, non meno autorevole, che di questo movimento vi si possono individuare elementi e stilemi che in altri presunti movimenti cinematografici invece non appaiono: per avvalersi perciò del titolo di “movimento” è fondamentale dotarsi di un apparato non soltanto contenutistico, ma anche (e soprattutto) discorsivo e tecnico.


Ma, a latere di ciò, sovente capita di imbattersi in piacevoli pellicole che a buon titolo possono definirsi originali, se non altro perché possiedono il buon senso di non appartenere a quella numerosa babele di epigoni del neorealismo che altro non fanno che ripetere, del tutto o in parte, racconti e storie già narrati; purtuttavia, anche se investiti di originalità, questi film non sono ascrivibili a nessun movimento in particolare e perciò debbono essere trattati singolarmente. Il caso che prenderò in esame, e che riguarda perciò la seconda pellicola della nostra trattazione, si riferisce ad un autore italiano assai peculiare, regista di numerosi film di successo, affatto commerciali ma non per questo poco conosciuti. Si tratta di Maurizio Nichetti, regista molto attivo dai primi anni '80 sino alla metà degli anni '90: nella sua carriera di cineasta Nichetti ha regalato al pubblico delle piccole perle di cinematografia italiana, lavori “artigianali” ma pregni di significati e valorizzazioni assai interessanti. Per il nostro discorso, ci torna utile parlare del film Ladri di saponette del 1989 il quale, a discapito del titolo che può suggerire una parodia o una farsa del film di De Sica, offre invece originali spunti di riflessione sui rapporti fra cinema, televisione e pubblicità, quest'ultima a buon titolo la vera isotopia della pellicola. Ma Ladri di saponette non è solo un metadiscorso sui linguaggi dell'audiovisivo: essa è anche una sferzante critica sul cinema italiano, in particolare su quel tipo di cinema commerciale che da quegli anni cominciava ad affiancarsi alle prime televisioni private, infarcite di pubblicità, che da quel momento in avanti hanno inevitabilmente compromesso la messa in onda dei film in televisione. Il film di Nichetti gode perciò di un ottimo soggetto e, se da principio il piano narrativo della pellicola sembra ricalcare nelle battute e nei personaggi Ladri di biciclette, nel prosieguo della storia si scopre che il piano discorsivo è invece assai ricco di artifici, trucchi e trovate sceniche davvero memorabili. Ma per una più completa trattazione di questa pellicola si rimanda a questo post.

venerdì 28 giugno 2013

Dove Men Care - Lo spot in dettaglio



Prendiamo ora in esame lo spot della Dove relativo al nuovo deodorante per uomo, il “Dove Men Care”. Lo spot ci viene innanzitutto presentato sotto forma di un manuale chiamato “dell'uomo moderno”, all'interno del quale vengono illustrati, attraverso simpatiche animazioni, alcuni tipici comportamenti ed atteggiamenti dell'uomo comune. Possiamo sin da ora riconoscere in questa rappresentazione una tipizzazione piuttosto semplificata e minimale dell'uomo, sia dal punto di vista ideologico, poiché le azioni presentate nel manuale sono del tutto banali, e sia dal punto di vista grafico/illustrativo, giacché il paventato “uomo moderno” ci viene offerto come un disegno stilizzato, al limite della caricatura. Ebbene, questa raffigurazione semplicistica dell'uomo se all'apparenza rassomiglia ad una mancanza d'inventiva o di pigrizia da parte dei creativi della campagna, ad un esame più acuto risulta invero coerente col contesto narrativo: se di manuale stiamo parlando è più che appropriato che al suo interno vi siano disegni e grafici che indichino il corretto utilizzo degli strumenti, alla stregua di un libretto d'istruzioni. E risiede proprio in questo la felice trovata dello spot: considerare l'uomo come un attrezzo, un utensile che, in quanto tale, soffre di complicazioni tecniche e/o meccaniche e perciò abbisogna degli opportuni strumenti per essere riparato ed aggiustato laddove necessario. L'idea di Dove è di offrire come rimedio alle eventuali complicanze derivanti dal sudore alle ascelle, l'impiego dello strumento/flacone di deodorante “Dove Men Care” che, come suggerisce il nome stesso, si prende cura dell'attrezzo/uomo.

Infatti, a proposito della considerazione dell'uomo in quanto macchinario, lo spot esordisce presentando le ascelle come “invenzione della tecnologia” e perciò possono essere “multiuso” e la “mancata cura può comportare il loro malfunzionamento”. È più che evidente perciò il trattamento dell'uomo proprio come macchinario che necessita di manutenzione la quale di certo non sarà straordinaria, una tantum, bensì ordinaria, quotidiana, esattamente come può esserlo l'uso di un deodorante sicché si ritiene che l'uomo moderno (o comunque qualsivoglia persona civile) tendendo ad affaticarsi e a compiere movimenti e/o azioni defatiganti, debba avere necessità di lavarsi, ovvero compiere una delle azioni quotidiane basilari per il buon “funzionamento” dell'organismo/macchina. Fra i vari utensili atti alla “riparazione” del macchinario vi è proprio il “Dove Men Care” che “mantiene al meglio” le ascelle rendendole così “sorprendenti”, ovvero capaci di compiere non solo azioni per le quali sono state opportunamente progettate, ma anche azioni varie ed eventuali, non propriamente necessarie. Nello spot quest'ultimo aspetto viene esemplificato in modo assai buffo dall'emissione di rumori equivoci, al pari di piccoli peti, provocati per pura ilarità dall'uomo stesso, facendo il verso ad una pratica ludica assai diffusa fra i maschi.

Venendo alla rappresentazione grafica dello spot, come ho già detto il tutto viene espresso attraverso delle illustrazioni al limite della caricatura tanto sono semplificate ma, come ho di nuovo già ribadito, ciò si dimostra assai pertinente ad un “manuale”. I disegni grafici sono addirittura privi di colore, essendo bianchi candidi, esattamente come possono apparire le illustrazioni di un utensile sul relativo libretto di montaggio. Questo distacco dalla realtà canonica di rappresentazione dell'uomo nei contesti della cosmesi o della cura del corpo, che vedono ancora idealtipi maschili piuttosto standardizzati che si attestano nel classico modello atletico e glabro, consente agli spot di non allontanarsi eccessivamente dalla realtà dei possibili acquirenti, evidentemente non tutti modelli dai fisici prestanti come orde di campagne pubblicitarie di intimo e cosmesi vogliono farci credere da tempo immemore. I disegnini della Dove sono semplici, asettici, minimali, incolori, possono rappresentare l'uomo comune così come quello sportivamente attivo, inserendoli in contesti altrettanto tipizzati ed abituali come lo stadio, lo spogliatoio, la camera da letto. Lo spot tende inoltre a rimarcare il fatto che la mancata manutenzione ordinaria delle ascelle può comportare il loro “malfunzionamento” e tale eventualità viene sapientemente illustrata nello spot con la letterale caduta di un arto dal corpo dell'uomo, esattamente come può accadere ad un macchinario che si ritrova a “perdere i pezzi” nel caso non venga abitualmente revisionato ed aggiustato. Esplicando questo parallelismo uomo/macchina e braccio/attrezzo come componente meccanico, lo spot di Dove riesce perfettamente ad instillare nella mente dello spettatore l'idea di non poter fare a meno di utilizzare un prodotto così utile e indispensabile come il deodorante “Dove Men Care”, mettendo perciò in atto un processo di identificazione con i disegnini dello spot che, seppur stilizzati, risultano efficaci nel loro compito di mera rappresentazione grafica.

A corollario di questo semplicismo grafico/illustrativo vi troviamo dei pittogrammi che coadiuvano il processo di raffigurazione e fungono da veri e propri simboli per comprendere al meglio l'utilizzo del prodotto così come il funzionamento delle ascelle: ecco allora che dei simboli grafici mostrano attraverso opportune linee il sistema cartesiano tridimensionale per indicare l'ampiezza dei movimenti delle braccia, oppure delle frecce direzionali illustrano la caduta di un braccio guasto o il punto in cui applicare il prodotto, così come il simbolo del divieto contiene al suo interno una grande goccia atta ad indicare la protezione del prodotto dal sudore. Anche la scelta dei colori, per quanto riguarda il livello cromatico, si dimostra in linea con l'impostazione da “manuale” dello spot essendo il colore predominante il grigio, al pari dei libretti illustrativi che tendono ad utilizzare le tonalità del grigio per colorare il prodotto o renderne più evidenti alcune sue parti. Gli unici altri colori usati sono il rosso, in minima parte per il simbolo del divieto, e l'azzurro che denota le frecce e la confezione del prodotto stesso.

Possiamo in definitiva individuare in questo spot dei valori d'uso del prodotto relativi alla valorizzazione pratica, poiché il prodotto in questione risponde ad una necessità materiale effettiva, ed alla valorizzazione critica, giacché il deodorante in quanto tale non inerisce alla sfera delle preoccupazioni sostanziali della vita e neppure risponde a delle finalità ludiche. Siamo quindi in grado di collocare questo felice spot in quel tipo di pubblicità sostanziale che, respingendo sia le impostazioni dell'ironia e del paradosso e sia quelle della mitizzazione eroica e della leggenda epica, è capace di attenersi pedissequamente alle caratteristiche del prodotto a tal punto da estremizzarne le capacità, in una sorta di marchiano iperrealismo.

sabato 20 aprile 2013

C'è posta per te - Recensione


Anche se all'apparenza può sembrare strano, il programma “C'è posta per te” rappresenta appieno un buon esempio di tv del dolore e per comprendere questa sua collocazione nel genere televisivo di riferimento è opportuno evidenziarne la struttura principale.
“C'è posta per te” è basato sulle diverse e svariate necessità di cittadini comuni di volersi riunire con persone a loro care con le quali non hanno più alcun tipo di rapporto da molti anni. Per riuscire in questo intento, il meccanismo del programma organizza la spedizione di una lettera al destinatario dell'incontro, il quale dovrà decidere in seguito se accettare l'invito, e quindi presentarsi in studio, oppure rifiutarlo. La particolarità di questo meccanismo è che il destinatario non è a conoscenza del mittente e di conseguenza la sua decisione di partecipare o meno alla trasmissione è fortemente legata e condizionata a questo fattore di enigmaticità dell'invito. Qualora il destinatario decidesse di presentarsi in studio, la conduttrice (Maria De Filippi) svolgerebbe il ruolo di mediatrice fra chi esige l'incontro e chi ha deciso di accettare l'invito, cercando di far volgere la questione positivamente con conseguente lieto fine.

Già da questa panoramica generale sulla strutturazione dello show è possibile individuare le insidiosità che si annidano dietro a queste semplici richieste di riappacificazione fra persone.
Innanzitutto, coloro che avanzano queste richieste sono cittadini comuni, quindi degli emeriti sconosciuti per tutti i telespettatori, fatta eccezioni che per i parenti stessi degli interessati che sono chiaramente i primi a prendersi a carico la questione così come, parimenti, sono dei benemeriti sconosciuti anche i destinatari degli inviti. In questo modo l'attenzione del programma si focalizza sull'anomia identitaria dei cittadini, sottolineando proprio il carattere ordinario e popolare di questi ultimi così come la dovuta ed ineccepibile vicinanza dello show alle tematiche ed alle problematiche della gente comune. Questo aspetto è fondamentale poiché incarna l'elemento chiave del programma, ovvero il suo profilo sensazionalistico inerente le vicissitudini del tutto ordinarie delle persone comuni che di fatto di sensazionale non hanno proprio nulla; ci ritroviamo così difronte ad un'oggettiva incongruenza d'intenti: da un lato porre l'attenzione sui fatti umili delle persone normali e dall'altro prodigarsi nell'esaltazione di questi ultimi, facendoli passare come eventi unici ed estremamente interessanti per la collettività.

Secondariamente, possiamo scorgere in questa visione la volontà malcelata di decantare e incentivare l'empatia che si verrebbe a creare fra gli ospiti dello show e gli spettatori, cioè i veri destinatari del programma: mettendo in risalto i fatti della gente comune, ed in particolare le loro problematiche famigliari, il pubblico ritrova in questo un'assimilazione ed una similitudine con i propri problemi che li possono coinvolgere sul piano parentale, amicale o lavorativo. In altre parole, la volontà di raccontare storie di gente comune in tv si lega con l'analoga volontà di incoraggiare un'identificazione nello spettatore con le medesime storie, il quale si ritroverà così a scavare nella sua memoria per andare alla ricerca di situazioni similari vissute in precedenza e scatenando il conseguente riaffiorare dei sentimenti e delle emozioni provate in quelle circostanze. Grazie a questo sistema empatico, se l'ospite in studio piange o comunque comunica sentimenti negativi, anche nello spettatore si scatenerà la medesima reazione emotiva, proprio in virtù di quell'associazione fra circostanze similari appena descritte. Ecco allora che ci ritroviamo davanti ad un lapalissiano caso di sensazionalismo televisivo dove si dà risalto ad aspetti che non ne meriterebbero affatto col solo scopo di alzare gli ascolti del programma.

In terzo luogo, si rende necessaria l'individuazione del modo in cui questi rapporti empatici vengono stipulati e possiamo a tal proposito individuare alcune ed efficaci pratiche, prima fra tutte quella del pianto in diretta. Avendo il ruolo di mediatrice menzionato più sopra, la De Filippi è tenuta a raccontare tutte le dinamiche delle storie nei minimi dettagli, senza tralasciare nulla, sottolineando talvolta gli aspetti dolorosi e le sofferenze fisiche ed emotive che i protagonisti hanno dovuto passare nella loro vita. In tal modo, l'ospite in studio nel riascoltare questi momenti di vita vissuta si ritroverà a riviverli con i ricordi, provocando così il riemergere delle medesime emozioni provate in precedenza, prima fra tutte appunto il pianto, il quale rappresenta uno degli atteggiamenti e dei comportamenti forse più intimi e personali di ogni individuo giacché esso mette a nudo le nostre debolezze sentimentali e ci tocca nel profondo dei nostri ricordi e della nostra intimità, permettendo allo stesso tempo che lo spettatore ci osservi durante il nostro dolore senza che vi sia la possibilità d'intervenire per alleviarlo.
È in questo modo che il pianto in diretta rappresenta un caso di tv del dolore, perché mette in risalto le debolezze e le fragilità delle persone che, al contrario, dovrebbero essere relegate ad un livello estremamente personale senza invece essere mostrare e provocate con naturalezza e normalità in un programma televisivo, incarnando così una pratica becera ed incivile d'intromissione nella vita privata di un individuo.

Un altro esempio di modo per scatenare l'empatia, e quindi il dolore con gli ospiti in studio, la si ritrova nella descrizione della storia da parte della De Filippi che, come ho detto, non perde tempo a raccontare dettagliatamente e pedissequamente ogni minimo risvolto e particolare della storia, svelando così al pubblico sviluppi e tratti intimamente personali dei singoli interessati con la presunta pretesa di rendere la storia più comprensibile possibile al pubblico. Ma, a pensarci bene, non si rinviene alcuna reale necessità di fondo nello svelamento di questi aspetti così personali bensì, al contrario, si individua distintamente l'esigenza di rendere di pubblico dominio tutti quegli elementi privati che in verità non possiedono alcun reale valore informativo ma rivestono solamente un ruolo di contorno, di abbellimento del racconto. Un abbellimento in negativo, chiaramente, poiché a rimetterci è l'immagine pubblica del singolo ospite, anche se a guadagnarci sono i telespettatori che si trovano così legittimati alla partecipazione nella vita personale dei singoli individui, rinforzando così sempre di più quel carattere di empatia e di identificazione da parte dello spettatore. Ecco quindi che, seguendo questa impostazione, la De Filippi narra storie di amori infranti, di matrimoni distrutti, di allontanamenti volontari o involontari, di litigi famigliari, di vecchi amori ritrovati, di amicizie latenti, di parenti provenienti da paesi esteri e delle loro relative nuove famiglie e nuove vite eccetera eccetera. Ci ritroviamo così a metà strada fra una funzione sociale del programma, che si pone l'obiettivo di risolvere soluzioni famigliari di conflitto o che comunque sono state danneggiate da qualche causa negativa, ed una narrazione incentrata sul gossip, sull'intromissione di estranei (i telespettatori) nella vita privata di altri estranei (gli ospiti in studio) i quali, per il solo fatto di essere comparsi in televisione, cessano di rivestire un profilo privato per transitare ad un profilo pubblico. Ma, come appare ben evidente, della funzione sociale spesso non ve n'è traccia, oppure la si riscontra in una minima parte del tutto trascurabile.

Infine, un altro aspetto di questo programma risiede nello stimolo da parte del pubblico d'interessarsi allo svolgersi delle vicende, soprattutto in merito al finale della storia durante il quale si scoprirà se il destinatario dell'invito decida di incontrare il mittente per ristabilire i rapporti di un tempo oppure decida di respingere questa opportunità facendo nuovamente sprofondare il mittente in un nuovo stato di disperazione e malessere emotivo.
Il succinto racconto della storia da parte della conduttrice serve quindi anche a corroborare nello spettatore la curiosità legata all'evolversi dei fatti, lo invoglia a restare d'innanzi allo schermo instillando in lui l'interesse in merito ad un possibile lieto fine o ad una drammatica rinuncia.

In definitiva, “C'è posta per te” è un classico esempio di tv del dolore dove vengono divulgate storie di persone ordinarie senza alcuna rilevanza informativa allo scopo di ottemperare ad un fantomatico principio sociale di cui il programma sarebbe investito ed il cui obiettivo ultimo risiederebbe nella positiva risoluzione di conflitti personali. Ciò che non si dice è invece che è proprio tramite le storie drammatiche dei partecipanti che lo show cerca di ottenere ascolti, anche in virtù di quel coinvolgimento emotivo più volte citato, realizzando così una vera e propria speculazione sui sentimenti delle persone, quest'ultima incentivata anche dagli ottimi dati di ascolto che si attestano sempre oltre il 20% di share.

domenica 24 marzo 2013

La tv del dolore: breve antologia


Sono le ore 19 di mercoledì 10 giugno 1981 e nella campagna romana si percepisce ancora il riverbero delle ultime ore di sole che riscaldano l'aria. Il piccolo Alfredo di 6 anni è in compagnia del padre Ferdinando e siccome si stava avvicinando l'ora di cena il bimbo gli chiede di poter fare ritorno a casa da solo e, visto che l'abitazione distava solo qualche decina di metri, il padre glielo concesse. A quel punto Alfredo salutò il padre e si diresse correndo verso casa, lasciando che i folti ciuffi d'erba della campagna gli accarezzassero le gambe nude ed il vento gli scompigliava i lunghi capelli castani. Il giovane nell'avvicinarsi a casa già pregustava la cena che gli aveva preparato la madre così come non vedeva l'ora di starsene al caldo sdraiato nel suo letto visto che ormai la sera stava lentamente avvicinandosi.
Ad un certo punto, inaspettatamente, Alfredo sentì un vuoto sotto i piedi, colpì violentemente un ginocchio contro il terreno arido, sentì un forte dolore alla testa e alle braccia, un dolore prolungato causato dalla roccia ruvida e fredda che gli graffiò la pelle procurandogli profonde ferite, percepì il fango imbrattargli il corpo e i vestiti mentre il suo odore gli entrava nel naso. Poi, da quel momento, il buio. L'oscurità più totale ed il senso d'abbandono insieme allo sgomento e alla disperazione furono gli ultimi compagni di vita di Alfredo che da quella trappola nelle cavità della terra non ne uscì mai più, trovandone la morte tre giorni dopo, il 13 giugno del 1981 alle ore 7.

Questa breve ma tragica storia è chiaramente quella di Alfredino Rampi, il bimbo che suo malgrado divenne il principale protagonista di uno dei più drammatici e struggenti fatti di cronaca degli anni '80, un fatto epocale, un avvenimento unico sotto diversi profili.
Innanzitutto esso è un fatto tragico, non tanto per la gravità in se, poiché in fondo si tratta “soltanto” di un ragazzino incastrato in un pozzo, quanto invece per l'incapacità e per l'impotenza dello Stato d'innanzi alla vita di un bambino. Non appena sopraggiunsero sul posto i soccorsi chiamati dai genitori non vi fu forza dell'ordine capace di trovare una soluzione per il recupero del bimbo, incastrato a 36 metri di profondità; anzi, si ebbe solo modo di assistere a dei goffi e infelici tentativi di salvataggio, primo fra tutti l'idea di calare nel pozzo largo appena 30cm una tavola di legno legata ad una corda, alla quale il bimbo si sarebbe dovuto aggrappare per poi essere risollevato in superficie. Ma l'idea non ebbe neppure il tempo d'essere provata che subito incontrò il primo ed evidente ostacolo, incastrandosi infatti fra le pareti del pozzo a pochi metri dal suolo, fungendo così da tappo impedendone l'accesso. Già da questo triste gesto si può intuire la totale impreparazione e inesperienza che regnava fra i soccorritori, nessuno dei quali seppe mai trovare delle idee ragionate ed efficaci per recuperare il piccolo Alfredino.

Arrivarono sul luogo squadre di pompieri e anche di speleologi, a rigore i più arguti ed esperti in materia, ma nessuno riuscì a trovare una soluzione felice. Nel frattempo giunsero a Vermicino, nella campagna romana, piccole troupe televisive insieme a qualche curioso che voleva osservare in prima persona quello strano caso del bambino caduto nel pozzo. Muniti forse di un'eccessiva sicurezza e di una sfrontatezza probabilmente del tutto fuori luogo, i pompieri assicurarono che in breve tempo la vita di Alfredino sarebbe stata tratta in salvo. Rincuorati da quelle belle parole, l'edizione ordinaria del Tg 1 delle 13 sforò di 15 minuti la normale programmazione, in attesa che il corpo del bimbo riaffiorasse da quella voragine. Ma così purtroppo non fu e i 15 minuti di sforamento divennero successivamente ore, oltre 18 ore ininterrotte di diretta televisiva, la più lunga che la televisione pubblica ebbe mai realizzato, al solo scopo di restare in attesa di qualche segno positivo. Nel frattempo l'attenzione degli italiani e dell'opinione pubblica generale si concentrò su questo fatto di cronaca e poco importa se nel frattempo vi fu lo scandalo della loggia P2 con conseguente crisi di governo, poco importa se vi fu l'attentato a Papa Giovanni Paolo II, poco importa se nelle stesse ore Roberto Peci fu rapito dalle Brigate Rosse perché “colpevole” di essere fratello di un pentito brigatista: tutto ciò non interessava, ciò che si voleva sapere con maggiore apprensione erano le sorti di Alfredino.

È così che inizia un nuovo modo di fare informazione, un nuovo modo di raccontare le notizie e di fornire fatti di cronaca: è con la tragedia di Vermicino che nasce la cosiddetta tv del dolore, ovvero quel particolare modo di fare informazione televisiva in bilico fra un accanimento forzato sui fatti, cogliendone ogni minima rilevanza ed irrilevanza, e la costruzione di un discorso sui fatti stessi, discorso che nel tempo è esondato dai bacini dei telegiornali come un fiume in piena per invadere anche altri tipi di programmi e di canali di comunicazione. È dal dramma di Vermicino che nasce così l'insistenza sulle dinamiche delle tragedie familiari, è da qui che nascono le interviste in diretta a parenti in lacrime, è da qui che si sviluppa l'accanimento sugli sviluppi delle indagini, sui risvolti degli omicidi, sulle inchieste giornalistiche di presunto valore informativo. Si sviluppa quindi il sensazionalismo della notizia, la scoperta negli italiani della passione per il macabro, per l'efferato, per il sinistro, per il dolore.
Il dramma di Alfredino parla chiaro: quella era una televisione senza esperienza nelle dirette tv e addirittura priva delle adeguate tecnologie, così come persisteva ancora un certo senso del pudore e di rispetto per il dolore delle vittime, ma anche se la televisione era impreparata e anche se conservava ancora una sorta di deontologia nell'informazione la sete di sapere del pubblico era troppo forte e la tv doveva dare al pubblico ciò che esso si aspettava, doveva accontentarlo, anche a fronte dei 21 milioni di telespettatori che invasero le dirette Rai a reti unificate facendo registrare picchi di ascolti record.

Come non soddisfare la fame informativa del pubblico? Come non approfittare di un evento mediatico (seppur tragico) come quello per incassare ascolti? Tanto valeva approfittarne e fu così che le poche troupe televisive divennero decine, così come i pochi curiosi giunti sul posto divennero decine di migliaia di persone. Giunsero addirittura venditori di panini e di zucchero filato, si dovettero transennare le zone per evitare il sovraffollamento ed il luogo era talmente onusto di gente che persino i mezzi di soccorso incontrarono difficoltà nel farsi spazio per passare. L'attenzione dei media era talmente alta, la tensione talmente forte, l'apprensione, la preoccupazione, il timore, l'angoscia così percepibili da rendere l'atmosfera pregna di pathos, intrisa di coinvolgimento emotivo. Non mancò neppure la visita del Capo dello Stato Sandro Pertini che volle personalmente presenziare ad un possibile salvataggio di Alfredino.

Si mandarono in diretta tutti gli istanti, tutti gli attimi carichi di tensione, comprese le interviste alla madre del bimbo in lacrime, così come le atroci grida di disperazione di Alfredino provenienti dall'abisso, ovattate dalle pareti buie di quel dannato pozzo nel quale era intrappolato ormai da troppo tempo.
Vermicino si trasformò in quello che oggi chiameremmo “circo mediatico”, una babele vergognosa di curiosi, un andirivieni di cameraman e giornalisti impegnati nell'affannoso tentativo di inviare ai telespettatori ogni singolo istante di quel dramma al solo scopo di informare.

Ma è informazione questa? O, piuttosto, è un accanimento, un'insistenza, una perseveranza grottesca nel mettere in risalto il macabro? Ma, soprattutto, questa storia ha giovato alle sorti del piccolo Alfredino? Assolutamente no, poiché, come sappiamo, il bimbo nel pozzo vi morì tre giorni dopo, a 60 metri di profondità e dopo oltre 63 ore di inutili e disperati tentativi, in un'epoca dove la Protezione Civile ancora non esisteva e dove lo Stato italiano si dimostrò impotente, disarmato difronte all'impossibilità di salvare la vita ad un bambino, decretando questo avvenimento come un grande e triste fallimento.
La tv del dolore nel frattempo è cambiata, oggi si maschera da inchiesta giornalistica d'avanguardia, da approfondimento in prima e seconda serata, da intervista esclusiva, senza fare in modo che lo spettatore si accorga che se anche non c'è nulla di nuovo da dire la tv del dolore ritorna ugualmente sull'argomento, gira e rigira il coltello nella piaga al solo scopo di dare al pubblico ciò che egli desidera di più: ed è così che i telegiornali spesso iniziano con una notizia di cronaca nera, così come i salotti televisivi del pomeriggio ospitano fior fiori di esperti criminologi, psicologi, inviati speciali impegnati a discutere dell'ennesimo fatto di sangue, ed allo stesso modo sorgono sempre nuovi programmi televisivi che trattano di omicidi, di persone scomparse, di drammi familiari, il tutto al solo fine di parlare e speculare sul dolore altrui, travalicando quelli che sono i limiti deontologici dell'informazione e della rilevanza della notizia per cadere invece nel circolo vizioso della ricorsività, della ripetizione e della reiterazione delle informazioni. Ogni scusa è buona per non distrarre lo spettatore dall'efferatezza dell'ultimo omicidio, ogni motivo è valido per ritornare insistentemente e più volte sullo stesso caso, anche del passato, al solo fine di poterne parlare e riempire la testa delle persone di dolore mischiato all'intrattenimento, perché è di questo che si sta parlando, di infotainment, di cronaca nera mixata al gossip, generando così un obbrobrio comunicativo senza alcuna utilità.
Sono tutti casi di imitazione sfrontata della tragedia di Vermicino, epigoni di un modo di fare televisione ingenuamente squallido e in taluni casi violento e volgare poiché nella tv del dolore si vuole dare una notizia facendo conseguentemente notizia, cioè diventando il mezzo di informazione esso stesso una notizia, arrivando così a metacomunicare come già ho avuto modo di ripetere più volte.

Allo stesso modo, nella tv del dolore vi è l'interesse nella creazione di un'empatia fra la drammaticità delle storie raccontate e lo spettatore il quale si ritroverà ad immedesimarsi in questi eventi perché essi appartengono alla vita di tutti i giorni e in linea di massima possono capitare un po' a tutti, persino allo spettatore stesso. Si genera così una continua impersonificazione dello spettatore nei familiari delle vittime, un continuo gioco di immedesimazione fra i personaggi dei drammi e il pubblico al solo scopo di garantirsi gli ascolti mascherandoli da buona e dovuta informazione televisiva, sbeffeggiando il pudore e il rispetto dell'opinione pubblica la quale può legittimamente sentirsi offesa o infastidita da questo deprecabile modo di fare informazione televisiva.

Nei successivi post si vedranno in dettaglio i programmi televisivi che meglio rappresentano la tv del dolore che, occorre sottolineare, è un genere trasversale che ingloba diversi stili televisivi, anche quelli più insospettabili.