domenica 10 febbraio 2013

Il PD "...è 'st'acqua qua ragazzi"


Volendo partire dal Partito Democratico per risalire alle vittorie e allo smalto mediatico di PDL e M5S è opportuno tornare indietro nel tempo, almeno al 2008, anno in cui il PD venne ufficialmente formato e che coincise con le elezioni politiche per le quali Walter Veltroni correva per la presidenza del consiglio. Già, Veltroni, tocca cominciare da li poiché è proprio “grazie” a lui che i guai sotto il profilo comunicativo iniziarono. 

Prima di tutto partiamo dalla faccia, perché in politica occorre metterci la faccia, come si sa. E come mai occorre metterci la faccia? Occorre perché sennò l'elettore non saprebbe chi votare oppure, detto in altre parole, è opportuno che al simbolo del partito l'elettore sia nelle condizioni di associarvi il volto di chi quel partito lo rappresenta, esteticamente e ideologicamente. Quindi è necessario, come appare evidente, che il volto e la figura del leader appaiano in pubblico nella migliore forma e condizione possibile, pena la disaffezione o l'allontanamento dell'elettore dal partito.

Ebbene, in tutto ciò dove e come ha sbagliato Veltroni? In una parola: nella falsità. Veltroni si propose come un leader farlocco, non tanto nelle idee, sia chiaro, quanto invece nell'espressività e nella scelta dello slogan di partito, il tristemente noto “Si può fare” in stile Obama. Prendiamo questa foto di Veltroni utilizzata nei manifesti e nelle locandine elettorali del 2008 con particolare attenzione al volto del leader: notato niente di strano nell'espressione degli occhi? Essi appaiono completamente disarticolati rispetto alla parte inferiore del viso dove campeggia un (apparente) felice sorriso. La disarticolazione oculare dice molto sulla veridicità delle emozioni che si stanno provando e gli occhi rappresentano proprio la prova del nove per l'interlocutore se davvero vuole essere sicuro degli stati d'animo di chi gli sta difronte. In particolare, siamo d'innanzi ad un cosiddetto “sorriso falso” che si verifica ogni qualvolta al sorriso della bocca non si accompagna un adeguato “sorriso” degli occhi, individuabile dal coinvolgimento dei muscoli perioculari, le cosiddette “zampe di gallina”, ben visibile nell'immagine qui sotto. 
Se non vi è questa corrispondenza, si è difronte ad un sorriso falso, come nel caso del nostro Walter. Il messaggio che egli ci manda è quello di una mancato o del tutto relativo coinvolgimento emotivo in ciò che si sta facendo, nel tal caso una campagna elettorale nella quale si da per scontato che il candidato, proprio per il puro fatto di essersi proposto, dimostri voglia, grinta e determinazione per ottenere la vittoria alle elezioni. Qui siamo difronte all'opposto di ciò che Veltroni dovrebbe comunicare ai suoi elettori ma, come è evidente, la mimica facciale non è sufficiente poiché anche la postura di Veltroni ci comunica qualcosa: infatti, se notiamo bene, il buon Walter è protratto verso di noi e quindi si suppone essere seduto su un qualche sgabello e questo gesto protensivo sottolinea e rimarca ancora di più l'elemento di falsità dello sguardo e di mancata emotività poiché è proprio a noi che è rivolto, ci sta guardando, ci fissa intensamente.

Altra nota dolente, come anticipato, è quella relativa allo slogan scelto per la campagna elettorale, ovvero quel “Si può fare” che suona tanto da traduzione di basso rango, un mero copia e incolla ispirato alla campagna delle politiche amministrative USA vinte da Obama con il suo ben più pregnante “Yes, we can”. Obama vinse le elezioni del 2008 poiché dietro allo slogan seppe costruirvi una storia, un racconto, una trama che altro non era che la storia dell'America fatta di tante vittorie, la storia di una grande nazione sorretta e coadiuvata dal volere di Dio: God bless America! Grazie a questa impalcatura narrativa Obama ha saputo colmare lo sterile vuoto di qualche parola donando loro un enorme significato nel quale il popolo americano riuscì ad identificarsi appieno, rendendo lo slogan pregno e denso di senso. 

Certo non si può dire lo stesso dello slogan di Veltroni, che pare essere stato semplicemente tradotto dall'inglese all'italiano, seppure il medesimo sistema di valori non sia stato anch'esso felicemente traslato. Infatti il “Si può fare” di Veltroni appare alquanto impersonale, si racconta di un “Si” generico, non ben precisato, non si capisce bene chi e cosa deve fare o può fare, non si sa quando e per quale scopo. Più che uno slogan sembra una sottospecie di scaricabarile all'italiana, demandare ad altri ciò che il leader dovrebbe fare. Non c'è nessuna storia dietro a questo slogan, non c'è una narrazione, non ci sono personaggi: è uno slogan vuoto, asettico che il PD ha fatto proprio ma dal quale non ha tratto alcun vantaggio.

Acceleriamo i tempi: il PD perde le elezioni, Veltroni si dimette da segretario di partito, viene temporaneamente eletto Dario Franceschini come segretario in attesa delle primarie, le elezioni interne al PD per decidere il nuovo segretario. I candidati sono tre: lo stesso Franceschini, Ignazio Marino e Pier Luigi Bersani. Vince il buon Bersani, il cui compito è quello di accompagnare il partito alle successive elezioni politiche del 2013. 
In tutti questi anni Bersani si è contraddistinto più per quello che non ha fatto che per quello che ha fatto: anzi, ha fatto ciò che non doveva fare, cioè perdere. Ma cosa può essere stato a far perdere il povero Bersani? Se da un lato la coalizione di centrodestra appare come la causa principale, la motivazione secondaria è data dalla figura di Bersani, dalla sua immagine e dal suo linguaggio. 

Analizziamo le cose con calma, partendo dalla figura di Bersani, in particolare dalla postura. Bersani appare spesso curvo, ingobbito, con le spalle ricurve e la testa infossata mettendo così in evidenza la classica posizione di “rannicchiamento” che veicola un atteggiamento di sottomissione e di subalternità nei riguardi dell'elettorato. Questo non è un aspetto da poco poiché le diverse gerarchie in politica devono essere chiare: se il leader si dimostra debole il cittadino non sarà più disposto in futuro a dargli fiducia.
Altro aspetto negativo di Bersani è lo sguardo, uno sguardo spesso minaccioso, cupo, quasi fosse irritato o disturbato da ciò che lo circonda e questo testimonia una chiusura nei confronti del prossimo e quindi un allontanamento, un respingimento. Bersani sorride inoltre molto poco, così come è abitudine diffusa fra gli esponenti di sinistra che difficilmente si lasciano andare in sorrisi o addirittura in risate. 


Questi aspetti preliminari possono essere adeguatamente riscontrati nel video della conferenza stampa all'indomani dell'unica e rilevante vittoria portata a casa dal PD, quella delle amministrative del 2011: osservando questa foto si può notare un Bersani ingobbito, curvo su se stesso, con le spalle arcuate, lo sguardo cupo rivolto verso il basso e gli angoli della bocca tirati in una smorfia. Beh, è questo il modo di dimostrarsi entusiasti difronte ad una vittoria elettorale? Che immagine si veicola in questo modo agli elettori? L'idea è quella di un leader quasi schifato dalla vittoria, come se lo avesse infastidito l'aver vinto una volta tanto. Pessima comunicazione caro Bersani.

Venendo al linguaggio, quello di Bersani si colloca all'opposto della formalità, soprattutto per gli scarsi contenuti delle sue trattazioni: Bersani parla con toni generali, si rivolge a possibilità remote, ad eventualità future, a probabilità possibili senza parlare quasi mai di aspetti concreti, di possibilità certe, di presunte sicurezze. Questa evidente fuggevolezza semantica, questa narratività claudicante veicola un sentimento di incapacità del leader, di mancanza di possibilità, in termini semiotici di un non poter e un non saper fare. L'aspetto colloquiale è importante per comunicare ciò che si desidera ed un leader che si pone ad un livello di vaghezza generale certo non è portatore sano di ottime capacità di parola. Tutto ciò, inoltre, va ad unirsi ad una marcata inclinazione dialettale, in particolare emiliana, che contraddistingue più di ogni altra cosa il linguaggio di Bersani e che lo raffigura come un uomo di paese, una figura del popolo, come si può essere portati a pensare; ma se questo aspetto in un certo senso porta ad avvicinare Bersani alla gente comune, perché parla e si esprime come un uomo della strada, è anche vero che proprio questa prossimità alla gente lo allontana dalla politica e quindi Bersani sembra un po' vicino alla politica ma anche un po' vicino alla gente, ponendosi nel mezzo, e da questa peculiarità derivano le sue note imitazioni del comico Maurizio Crozza che, da bravo caratterista qual'è, ha evidenziato un aspetto tipico di Bersani ingigantendolo a dismisura facendone una parodia; del resto, le parodie e le caricature fanno leva proprio sulle debolezze e le peculiarità altrui per poter funzionare e quella più evidente, nel caso di Bersani, è proprio la sua cadenza emiliana: è da questa imitazione che derivano le celebri metafore di Crozza come, ad esempio, “Oh ragazzi, siam mica qui a smacchiare i giaguari”, oppure “Ragazzi, siam mica qui a tagliare i bordi ai toast”, o ancora “Ragazzi, siam mica qui a metter la crema da barba nei Ringo” e, per concludere “Oh ragazzi, siam mica qui a togliere le occhiaie ai panda” e via dicendo. Giocando proprio sull'uso delle metafore che Bersani sfoggia nelle sue discussioni politiche, il comico Crozza ha centrato un lato della debolezza comunicativa del leader, il quale pare incapace di farsi capire al di fuori dell'ordinario linguaggio corrente sentendosi quindi legittimato a fare uso di metafore e detti proverbiali che difficilmente verranno capiti dai non emiliani. Fanno parte del repertorio di Bersani frasi come “Se piove, piove per tutti”, o “Il maiale non è mica tutto di prosciutto” o il ben più famoso “Meglio un passerotto in mano che un tacchino sul tetto”, quest'ultima frase alla stregua del nonsense.

Ma le debolezze d'intenti informativi del PD non si fermano solo alle figure dei suoi esponenti e si riverberano anche sulla sua etichetta, cioè sul logo di partito. Esso si presenta figurativamente piuttosto omogeneo e uniforme sia sul piano eidetico e sia sul piano cromatico, evidenziato dall'uso dei colori della bandiera italiana risultanti da una grossa P in verde e da una D bianca che emerge per contrasto da uno sfondo rosso. Il logo del partito è coronato infine dalla dicitura “Partito Democratico”, posta al di sotto delle iniziali colorate, dove viene collocato fra le due parole un ramoscello d'ulivo, testimone del recente passato politico del partito, sorto proprio sulle ceneri della precedente coalizione di centrosinistra e rappresentante quindi un elemento di continuità con il passato; questo aspetto, sia sul piano del significato che su quello grafico, di certo non aiuta una svolta generazionale e riformista, soprattutto quando il recente passato non si è contraddistinto per grandi vittorie politiche.

In ogni caso, al di la del valore significante del logo, ciò che più stupisce nell'ideazione del marchio è l'assenza del nome del leader: nel logo del PD manca la dicitura “Bersani”. Questo aspetto è emblematico nonché paradigmatico poiché una delle regole base della comunicazione politica è rappresentata proprio dal riconoscimento del leader da parte dell'elettore, riconoscimento che, se non coadiuvato dal volto del leader stesso, è facilitato dalla presenza del suo nome nel logo del partito e questa regola di base segna l'importanza strategica che la figura del politico ricopre come rappresentante di una coalizione poiché l'elettore non vota il programma elettorale ma vota il candidato, non vota il partito ma vota la persona. Alla luce di ciò, l'assenza del nome di Bersani dal logo del PD identifica una carenza identitaria in questa forza politica, una compagine governata non si sa bene da chi il quale non ha ben specificato cosa vuole fare. 
A tal proposito può essere avanzata la critica, alquanto prevedibile seppur legittima, di coloro che vedono nella presenza del nome del leader nel logo la cosiddetta “personalizzazione” della politica di chiara impronta berlusconiana, ovvero un modo per accaparrarsi l'immagine intera della coalizione al fine di condensarla e concentrarla in un'unica persona, eliminando la rilevanza mediatica e ideologica di qualsiasi altro esponente del partito stesso. Ebbene, questa critica non trova ragione d'essere poiché questa presunta personalizzazione rappresenta una pratica comunicativa non soltanto propria di Berlusconi, bensì della maggioranza dei partiti italiani i quali, esattamente come avvenne per il centrodestra nel '94, riconoscono l'importanza cruciale dell'identificazione ideologica e identitaria dell'elettore nel nome del leader accompagnato al logo del partito. 
Da ultimo, quindi, tale assenza o mera dimenticanza grafica di un semplice nome può a buon diritto rappresentare l'ennesimo carattere di sfiducia dell'elettorato di sinistra nei confronti dei rappresentanti politici ed esso costituisce infine una delle tante e carenti fallace comunicative perpetrate dalla sinistra a danno dell'immagine di se stessa.

Sarebbe interessante, così come ho fatto con Veltroni, analizzare i manifesti e le campagne d'affissione del PD nel corso degli anni ma questo discorso ci porterebbe troppo lontani da questa trattazione, per cui rimando tale studio ad eventuali post futuri.

1 commento:

  1. Ma certo, come no. C’è una pietra dello scandalo che ha trascinato la politica italiana verso una mefitica, sciagurata personalizzazione, e qui s’interpreta la cosa come un aver riconosciuto “l’importanza cruciale dell’identificazione ideologica e identitaria dell’elettore nel nome del leader accompagnato al logo del partito”! Ridicolo. Di qui i partiti *padronali*, del tutto *privi* d’idee, come il PdL e appunto il Pd. La *negazione* della politica. Altro che “identificazione ideologica e identitaria”, siamo sempre all’uomo solo al comando di triste memoria. Se qualcuno cambia rotta merita solo il mio rispetto: certo, che è una strategia rischiosa! Hai visto mai qualcuno che abbia vinto una battaglia stando comodamente seduto in poltrona? E soprattutto è *democratico*. Onore al Pd da un suo fierissimo avversario.

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