La politica italiana è vecchia,
arrugginita, da buttare, anzi da rottamare. Sì, rottamare è la
parola giusta, rende proprio l'idea di qualcosa di vetusto e
ammuffito che viene accartocciato su se stesso e gettato in qualche
inceneritore. Chi è che l'aveva sollevata la questione del
rottamare? Ah si, Renzi, il sindaco di Firenze, quel piacione con la
battuta sempre pronta che si era proposto come alternativa alle
primarie del centrosinistra, un volto nuovo, fresco, dinamico, uno
che ispira cambiamento insomma. Ed infatti alle primarie del PD gli
elettori, potendo scegliere fra il compagno Bersani e il fanciullo
Renzi, fra il vecchio e il nuovo, chi si ritrovano a scegliere?
Bersani, logicamente.
Ma non si era appena usciti da una
situazione di allontanamento totale dei cittadini dalla politica
causata dai ripetuti e quotidiani scandali, perlopiù di carattere
economico, che investirono la casta praticamente sotto ogni profilo
ed ordine governativo? I cittadini erano oppure no disgustati ed
indignati da quei politicanti che si trastullavano goliardicamente
con i soldi pubblici degli elettori?Per non parlare dei vitalizi
d'oro dei parlamentari e di tutti i numerosi privilegi di cui godono
i nostri cari politici; e le inchieste giudiziarie che colpirono
praticamente quasi tutti i consigli regionali, ne vogliamo parlare?
Io ero rimasto con la testa a questo
stato delle cose, ero rimasto agli scandali della politica, che per
altro servirono non soltanto a mettere in luce numerosi altarini (ed
anche a mettere in galera qualcuno) ma furono utili a radunare gli
italiani in un fronte di protesta popolare, un grido d'allarme e di
sdegno collettivo nei riguardi di una classe politica oramai
obsoleta. Ma allora, perché questo stato di cose cambiò? Ah già,
ora ricordo: il presidente del consiglio tecnico, Mario Monti, ebbe
l'accortezza di dimettersi allorché il Popolo della Libertà si
ritrovò a non votare la fiducia al governo dei professori e questo,
a quanto pare, risultò più che sufficiente per far ricadere
l'opinione pubblica nella luciferina trappola della campagna
elettorale.
Allora si spiega tutto: ecco perché il
grido dello scandalo collettivo proveniente dai cittadini cessò,
ecco perché lo sdegno popolare scomparve, ecco perché al nuovo si
continua a preferire il vecchio: è per via della campagna
elettorale. Ma se un evento politico del genere è capace di smorzare
addirittura gli animi incandescenti dei cittadini indignati, ad un
passo dalla rivolta popolare, significa che mette in gioco delle
forze persuasive particolarmente potenti, sennò questo cambio di
rotta, anzi questa “virata”, non si spiegherebbe.
Si centra la questione se al tema della
campagna elettorale si affianca quello della comunicazione politica,
ovvero una serie di pratiche di cui il politico, anzi il leader, fa
uso ogni qualvolta ritiene necessario veicolare agli elettori certe
informazioni oppure quando deve suscitare una certa mobilitazione
nell'elettorato. Un bravo politico sa, e deve sapere, che i programmi
e le campagne elettorali non sono sufficienti per rivolgersi ai
cittadini, ma è determinante anche l'arma della comunicazione, che
racchiude in se una serie di persuasioni e tattiche performative di
norma fondamentali per la vittoria del leader. Negare l'importanza
della comunicazione in ambito politico equivale ad essere dei
politici a metà, sicché negare l'aspetto puramente scenico o
tattico-manipolatorio rischia di farsi passare per una sorta
d'improbabile Grande Fratello.
L'aspetto della comunicazione, occorre
sottolinearlo, rappresenta un deficit per la maggioranza dei nostri
leader di partito, molti dei quali non curano la propria immagine
così come si ritrovano a disquisire in un linguaggio alquanto
arcaico, quasi da prima repubblica o, ancora peggio, da età
prerepubblicana. Eppure “parlare come si mangia” è importante
tanto quanto lo sono le proposte politiche che si fanno in campagna
elettorale, quindi perché continuare ad ignorare un aspetto così
saliente della politica?
La risposta è radicata nel vecchiume e
nell'inerzia della stessa classe politica, la cui strutturazione
interna non consente un adeguato ricambio generazionale e
legittimando così i soliti noti a sedere in parlamento per potersi
poi ricandidare, a loro discrezione, quando, come e dove vogliono.
Per forza di cose, gli italiani si ritrovano a dover votare quasi
sempre i soliti politici, senza alcuna possibilità di scelta con
un'alternativa nuova. Ma come, prima non si era parlato del vecchio
Bersani e del nuovo Renzi? Allora non è vero che l'alternativa non
c'è! Se così stanno le cose, come mai gli elettori del PD hanno
scelto come segretario il vecchio Bersani e non il nuovo Renzi?
Il medesimo discorso vale per il
centrodestra, animato per un breve periodo dall'idea democratica
delle primarie, per poi ripiombare in modo tragico (e forse anche un
po' prevedibile) nel solito e stantio clima della personificazione
totalitaria e totalizzante del Cavaliere il quale, eliminate le
primarie (roba da sinistra, troppo da sinistra evidentemente) è
ridisceso in campo monopolizzando l'attenzione su di sé. Da un lato
abbiamo un centrosinistra che prova a rinnovarsi ma non ci riesce e
dall'altro lato abbiamo un centrodestra che neppure trova la fatica
di provarci e resta così com'è, anzi com'è sempre stato.
Quindi l'imperativo categorico del
vecchio che avanza pare proprio endemico dell'habitat politico e se
questa è la realtà dei fatti allora non ci si deve proprio stupire
se il livello comunicativo generale è davvero scarso. Bisogna però
aggiungere che il ricambio generazionale non è la sola discriminante
poiché è cruciale anche la presenza di un altro aspetto, cioè
quello che dal 1994 in avanti viene definito come “berlusconismo”,
un neologismo coniato dai compagni sinistrorsi che videro
nell'imprenditore prestato alla politica un nemico fuori luogo, una
persona che con la politica non c'azzecca nulla, per dirla “alla Di
Pietro”. La discesa in campo di Berlusconi avvenne in modo a dir
poco rivoluzionario per l'inerzia comunicativa generale di allora:
furono distribuiti ai giovani dei circoli di Forza Italia i
cosiddetti “kit del presidente”, venne presentato un logo di
partito nuovo e colorato al quale si accompagnò addirittura una
canzoncina, un inno di partito. Ma la novità più schiacciante fu
rappresentata dal fatidico videomessaggio trasmesso dal Tg4 dove il
Cavaliere in 9 minuti annunciò la sua entrata in politica.
Subitamente si levarono voci di protesta dalla sinistra, la sinistra
dei comunisti, proprio quella individuata dal Cavaliere come
portatrice sana di una nuova dittatura sovietica. Fu così che la
propaganda elettore del centrodestra venne additata più come
campagna pubblicitaria, come spot televisivo, come azione di
marketing piuttosto che come vera politica applicata, ovvero la
politica perpetrata dagli uomini di apparato, uomini politici nati e
vissuti dentro un partito politico. Questa è la genesi del
berlusconismo, un modo sciatto e superficiale di fare politica, la
quale demanda al marketing quelli che sono i suoi doveri
istituzionali per il bene del Paese.
Si tratta di due estremi,
chiaramente: da un lato la vecchia partitocrazia d'apparato e
dall'altro lato la nuova politica mediatica. Da un lato vi erano i
nuovi partiti comunisti che facevano vera politica e dall'altro lato
un imprenditore che “giocava” coi suoi trucchi del mestiere,
quelli televisivi, elevando la politica al rango di siparietto
pubblicitario. Ebbene, in tutto questo la fallacia risiede proprio,
ed ancora una volta, nell'arretratezza culturale della politica
italiana, poiché la propaganda del Cavaliere altro non era che un
modo assodato di fare politica ampiamente presente in Europa già da
alcuni anni, così come negli Stati Uniti d'America era usanza almeno
dagli anni '50 in poi. Spot televisivi di partito, talk show
politici, inni e canzoncine, grandi promesse elettorali: erano tutte
strategie già presenti per fidelizzare il pubblico/elettorato al
prodotto/partito. Alla luce di ciò, ha ancora senso parlare di
berlusconismo per riferirsi ad un cattivo modo di fare politica? A
mio avviso il motivo non sussiste, soprattutto quando gli stessi
partiti che un tempo sbeffeggiavano queste strategie politiche sono
gli stessi che oggi le mettono in atto, nonostante i risultati non
sono (quasi) mai positivi come quelli che fecero vincere le elezioni
al centrodestra nel '94.
Appare quindi più chiaro, alla luce di
quanto detto finora, che le goffaggini comunicative non solo sono
dovute ad una classe politica rigida e statica, stagnante, ma le
cause di questa arretratezza sono da ascrivere anche ai cittadini
italiani, i quali o non riescono o non vogliono cambiare le cose.
Bisogna altresì ammettere, per onestà intellettuale, che non
proprio tutti i partiti non danno peso all'aspetto comunicativo: due
infatti sono le forze politiche nelle quali è possibile rintracciare
un profilo mediatico ampiamente assodato: si tratta del Popolo della
Libertà da un lato e dal Movimento 5 Stelle dall'altro. Ma se
vogliamo essere buoni, potremmo aggiungere anche Nichi Vendola, il
quale si distingue senza dubbio rispetto a tutti gli altri leader di
partito. Sfortunatamente, il PD non è pervenuto, e per capire
davvero come il PDL e il M5S riescono ad ottenere un così largo
consenso elettorale è opportuno proprio partire dalle difficoltà
mediatiche e d'immagine del PD.
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