domenica 10 febbraio 2013

La comunicazione politica italiana: un'analisi generale

La politica italiana è vecchia, arrugginita, da buttare, anzi da rottamare. Sì, rottamare è la parola giusta, rende proprio l'idea di qualcosa di vetusto e ammuffito che viene accartocciato su se stesso e gettato in qualche inceneritore. Chi è che l'aveva sollevata la questione del rottamare? Ah si, Renzi, il sindaco di Firenze, quel piacione con la battuta sempre pronta che si era proposto come alternativa alle primarie del centrosinistra, un volto nuovo, fresco, dinamico, uno che ispira cambiamento insomma. Ed infatti alle primarie del PD gli elettori, potendo scegliere fra il compagno Bersani e il fanciullo Renzi, fra il vecchio e il nuovo, chi si ritrovano a scegliere? Bersani, logicamente.

Ma non si era appena usciti da una situazione di allontanamento totale dei cittadini dalla politica causata dai ripetuti e quotidiani scandali, perlopiù di carattere economico, che investirono la casta praticamente sotto ogni profilo ed ordine governativo? I cittadini erano oppure no disgustati ed indignati da quei politicanti che si trastullavano goliardicamente con i soldi pubblici degli elettori?Per non parlare dei vitalizi d'oro dei parlamentari e di tutti i numerosi privilegi di cui godono i nostri cari politici; e le inchieste giudiziarie che colpirono praticamente quasi tutti i consigli regionali, ne vogliamo parlare?

Io ero rimasto con la testa a questo stato delle cose, ero rimasto agli scandali della politica, che per altro servirono non soltanto a mettere in luce numerosi altarini (ed anche a mettere in galera qualcuno) ma furono utili a radunare gli italiani in un fronte di protesta popolare, un grido d'allarme e di sdegno collettivo nei riguardi di una classe politica oramai obsoleta. Ma allora, perché questo stato di cose cambiò? Ah già, ora ricordo: il presidente del consiglio tecnico, Mario Monti, ebbe l'accortezza di dimettersi allorché il Popolo della Libertà si ritrovò a non votare la fiducia al governo dei professori e questo, a quanto pare, risultò più che sufficiente per far ricadere l'opinione pubblica nella luciferina trappola della campagna elettorale.

Allora si spiega tutto: ecco perché il grido dello scandalo collettivo proveniente dai cittadini cessò, ecco perché lo sdegno popolare scomparve, ecco perché al nuovo si continua a preferire il vecchio: è per via della campagna elettorale. Ma se un evento politico del genere è capace di smorzare addirittura gli animi incandescenti dei cittadini indignati, ad un passo dalla rivolta popolare, significa che mette in gioco delle forze persuasive particolarmente potenti, sennò questo cambio di rotta, anzi questa “virata”, non si spiegherebbe.
Si centra la questione se al tema della campagna elettorale si affianca quello della comunicazione politica, ovvero una serie di pratiche di cui il politico, anzi il leader, fa uso ogni qualvolta ritiene necessario veicolare agli elettori certe informazioni oppure quando deve suscitare una certa mobilitazione nell'elettorato. Un bravo politico sa, e deve sapere, che i programmi e le campagne elettorali non sono sufficienti per rivolgersi ai cittadini, ma è determinante anche l'arma della comunicazione, che racchiude in se una serie di persuasioni e tattiche performative di norma fondamentali per la vittoria del leader. Negare l'importanza della comunicazione in ambito politico equivale ad essere dei politici a metà, sicché negare l'aspetto puramente scenico o tattico-manipolatorio rischia di farsi passare per una sorta d'improbabile Grande Fratello.

L'aspetto della comunicazione, occorre sottolinearlo, rappresenta un deficit per la maggioranza dei nostri leader di partito, molti dei quali non curano la propria immagine così come si ritrovano a disquisire in un linguaggio alquanto arcaico, quasi da prima repubblica o, ancora peggio, da età prerepubblicana. Eppure “parlare come si mangia” è importante tanto quanto lo sono le proposte politiche che si fanno in campagna elettorale, quindi perché continuare ad ignorare un aspetto così saliente della politica?
La risposta è radicata nel vecchiume e nell'inerzia della stessa classe politica, la cui strutturazione interna non consente un adeguato ricambio generazionale e legittimando così i soliti noti a sedere in parlamento per potersi poi ricandidare, a loro discrezione, quando, come e dove vogliono. Per forza di cose, gli italiani si ritrovano a dover votare quasi sempre i soliti politici, senza alcuna possibilità di scelta con un'alternativa nuova. Ma come, prima non si era parlato del vecchio Bersani e del nuovo Renzi? Allora non è vero che l'alternativa non c'è! Se così stanno le cose, come mai gli elettori del PD hanno scelto come segretario il vecchio Bersani e non il nuovo Renzi?
Il medesimo discorso vale per il centrodestra, animato per un breve periodo dall'idea democratica delle primarie, per poi ripiombare in modo tragico (e forse anche un po' prevedibile) nel solito e stantio clima della personificazione totalitaria e totalizzante del Cavaliere il quale, eliminate le primarie (roba da sinistra, troppo da sinistra evidentemente) è ridisceso in campo monopolizzando l'attenzione su di sé. Da un lato abbiamo un centrosinistra che prova a rinnovarsi ma non ci riesce e dall'altro lato abbiamo un centrodestra che neppure trova la fatica di provarci e resta così com'è, anzi com'è sempre stato.

Quindi l'imperativo categorico del vecchio che avanza pare proprio endemico dell'habitat politico e se questa è la realtà dei fatti allora non ci si deve proprio stupire se il livello comunicativo generale è davvero scarso. Bisogna però aggiungere che il ricambio generazionale non è la sola discriminante poiché è cruciale anche la presenza di un altro aspetto, cioè quello che dal 1994 in avanti viene definito come “berlusconismo”, un neologismo coniato dai compagni sinistrorsi che videro nell'imprenditore prestato alla politica un nemico fuori luogo, una persona che con la politica non c'azzecca nulla, per dirla “alla Di Pietro”. La discesa in campo di Berlusconi avvenne in modo a dir poco rivoluzionario per l'inerzia comunicativa generale di allora: furono distribuiti ai giovani dei circoli di Forza Italia i cosiddetti “kit del presidente”, venne presentato un logo di partito nuovo e colorato al quale si accompagnò addirittura una canzoncina, un inno di partito. Ma la novità più schiacciante fu rappresentata dal fatidico videomessaggio trasmesso dal Tg4 dove il Cavaliere in 9 minuti annunciò la sua entrata in politica. Subitamente si levarono voci di protesta dalla sinistra, la sinistra dei comunisti, proprio quella individuata dal Cavaliere come portatrice sana di una nuova dittatura sovietica. Fu così che la propaganda elettore del centrodestra venne additata più come campagna pubblicitaria, come spot televisivo, come azione di marketing piuttosto che come vera politica applicata, ovvero la politica perpetrata dagli uomini di apparato, uomini politici nati e vissuti dentro un partito politico. Questa è la genesi del berlusconismo, un modo sciatto e superficiale di fare politica, la quale demanda al marketing quelli che sono i suoi doveri istituzionali per il bene del Paese. 

Si tratta di due estremi, chiaramente: da un lato la vecchia partitocrazia d'apparato e dall'altro lato la nuova politica mediatica. Da un lato vi erano i nuovi partiti comunisti che facevano vera politica e dall'altro lato un imprenditore che “giocava” coi suoi trucchi del mestiere, quelli televisivi, elevando la politica al rango di siparietto pubblicitario. Ebbene, in tutto questo la fallacia risiede proprio, ed ancora una volta, nell'arretratezza culturale della politica italiana, poiché la propaganda del Cavaliere altro non era che un modo assodato di fare politica ampiamente presente in Europa già da alcuni anni, così come negli Stati Uniti d'America era usanza almeno dagli anni '50 in poi. Spot televisivi di partito, talk show politici, inni e canzoncine, grandi promesse elettorali: erano tutte strategie già presenti per fidelizzare il pubblico/elettorato al prodotto/partito. Alla luce di ciò, ha ancora senso parlare di berlusconismo per riferirsi ad un cattivo modo di fare politica? A mio avviso il motivo non sussiste, soprattutto quando gli stessi partiti che un tempo sbeffeggiavano queste strategie politiche sono gli stessi che oggi le mettono in atto, nonostante i risultati non sono (quasi) mai positivi come quelli che fecero vincere le elezioni al centrodestra nel '94.

Appare quindi più chiaro, alla luce di quanto detto finora, che le goffaggini comunicative non solo sono dovute ad una classe politica rigida e statica, stagnante, ma le cause di questa arretratezza sono da ascrivere anche ai cittadini italiani, i quali o non riescono o non vogliono cambiare le cose. Bisogna altresì ammettere, per onestà intellettuale, che non proprio tutti i partiti non danno peso all'aspetto comunicativo: due infatti sono le forze politiche nelle quali è possibile rintracciare un profilo mediatico ampiamente assodato: si tratta del Popolo della Libertà da un lato e dal Movimento 5 Stelle dall'altro. Ma se vogliamo essere buoni, potremmo aggiungere anche Nichi Vendola, il quale si distingue senza dubbio rispetto a tutti gli altri leader di partito. Sfortunatamente, il PD non è pervenuto, e per capire davvero come il PDL e il M5S riescono ad ottenere un così largo consenso elettorale è opportuno proprio partire dalle difficoltà mediatiche e d'immagine del PD.

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