Volendo partire dal Partito Democratico
per risalire alle vittorie e allo smalto mediatico di PDL e M5S è
opportuno tornare indietro nel tempo, almeno al 2008, anno in cui il
PD venne ufficialmente formato e che coincise con le elezioni
politiche per le quali Walter Veltroni correva per la presidenza del
consiglio. Già, Veltroni, tocca cominciare da li poiché è proprio
“grazie” a lui che i guai sotto il profilo comunicativo
iniziarono.
Prima di tutto partiamo dalla faccia, perché in politica
occorre metterci la faccia, come si sa. E come mai occorre metterci
la faccia? Occorre perché sennò l'elettore non saprebbe chi votare
oppure, detto in altre parole, è opportuno che al simbolo del
partito l'elettore sia nelle condizioni di associarvi il volto di chi
quel partito lo rappresenta, esteticamente e ideologicamente. Quindi
è necessario, come appare evidente, che il volto e la figura del
leader appaiano in pubblico nella migliore forma e condizione
possibile, pena la disaffezione o l'allontanamento dell'elettore dal
partito.


Altra nota dolente, come anticipato, è
quella relativa allo slogan scelto per la campagna elettorale, ovvero
quel “Si può fare” che suona tanto da traduzione di basso
rango, un mero copia e incolla ispirato alla campagna delle politiche
amministrative USA vinte da Obama con il suo ben più pregnante “Yes,
we can”. Obama vinse le elezioni del 2008 poiché dietro allo
slogan seppe costruirvi una storia, un racconto, una trama che altro
non era che la storia dell'America fatta di tante vittorie, la storia
di una grande nazione sorretta e coadiuvata dal volere di Dio: God
bless America! Grazie a questa impalcatura narrativa Obama ha saputo
colmare lo sterile vuoto di qualche parola donando loro un enorme
significato nel quale il popolo americano riuscì ad identificarsi
appieno, rendendo lo slogan pregno e denso di senso.
Certo non si può dire lo stesso dello slogan di Veltroni, che pare essere stato semplicemente tradotto dall'inglese all'italiano, seppure il medesimo sistema di valori non sia stato anch'esso felicemente traslato. Infatti il “Si può fare” di Veltroni appare alquanto impersonale, si racconta di un “Si” generico, non ben precisato, non si capisce bene chi e cosa deve fare o può fare, non si sa quando e per quale scopo. Più che uno slogan sembra una sottospecie di scaricabarile all'italiana, demandare ad altri ciò che il leader dovrebbe fare. Non c'è nessuna storia dietro a questo slogan, non c'è una narrazione, non ci sono personaggi: è uno slogan vuoto, asettico che il PD ha fatto proprio ma dal quale non ha tratto alcun vantaggio.
Certo non si può dire lo stesso dello slogan di Veltroni, che pare essere stato semplicemente tradotto dall'inglese all'italiano, seppure il medesimo sistema di valori non sia stato anch'esso felicemente traslato. Infatti il “Si può fare” di Veltroni appare alquanto impersonale, si racconta di un “Si” generico, non ben precisato, non si capisce bene chi e cosa deve fare o può fare, non si sa quando e per quale scopo. Più che uno slogan sembra una sottospecie di scaricabarile all'italiana, demandare ad altri ciò che il leader dovrebbe fare. Non c'è nessuna storia dietro a questo slogan, non c'è una narrazione, non ci sono personaggi: è uno slogan vuoto, asettico che il PD ha fatto proprio ma dal quale non ha tratto alcun vantaggio.
Acceleriamo i tempi: il PD perde le
elezioni, Veltroni si dimette da segretario di partito, viene
temporaneamente eletto Dario Franceschini come segretario in attesa
delle primarie, le elezioni interne al PD per decidere il nuovo
segretario. I candidati sono tre: lo stesso Franceschini, Ignazio
Marino e Pier Luigi Bersani. Vince il buon Bersani, il cui compito è
quello di accompagnare il partito alle successive elezioni politiche
del 2013.
In tutti questi anni Bersani si è contraddistinto più per quello che non ha fatto che per quello che ha fatto: anzi, ha fatto ciò che non doveva fare, cioè perdere. Ma cosa può essere stato a far perdere il povero Bersani? Se da un lato la coalizione di centrodestra appare come la causa principale, la motivazione secondaria è data dalla figura di Bersani, dalla sua immagine e dal suo linguaggio.
Analizziamo le cose con calma, partendo dalla figura di Bersani, in particolare dalla postura. Bersani appare spesso curvo, ingobbito, con le spalle ricurve e la testa infossata mettendo così in evidenza la classica posizione di “rannicchiamento” che veicola un atteggiamento di sottomissione e di subalternità nei riguardi dell'elettorato. Questo non è un aspetto da poco poiché le diverse gerarchie in politica devono essere chiare: se il leader si dimostra debole il cittadino non sarà più disposto in futuro a dargli fiducia.
In tutti questi anni Bersani si è contraddistinto più per quello che non ha fatto che per quello che ha fatto: anzi, ha fatto ciò che non doveva fare, cioè perdere. Ma cosa può essere stato a far perdere il povero Bersani? Se da un lato la coalizione di centrodestra appare come la causa principale, la motivazione secondaria è data dalla figura di Bersani, dalla sua immagine e dal suo linguaggio.
Analizziamo le cose con calma, partendo dalla figura di Bersani, in particolare dalla postura. Bersani appare spesso curvo, ingobbito, con le spalle ricurve e la testa infossata mettendo così in evidenza la classica posizione di “rannicchiamento” che veicola un atteggiamento di sottomissione e di subalternità nei riguardi dell'elettorato. Questo non è un aspetto da poco poiché le diverse gerarchie in politica devono essere chiare: se il leader si dimostra debole il cittadino non sarà più disposto in futuro a dargli fiducia.
Altro aspetto negativo di Bersani è lo
sguardo, uno sguardo spesso minaccioso, cupo, quasi fosse irritato o
disturbato da ciò che lo circonda e questo testimonia una chiusura
nei confronti del prossimo e quindi un allontanamento, un
respingimento. Bersani sorride inoltre molto poco, così come è
abitudine diffusa fra gli esponenti di sinistra che difficilmente si
lasciano andare in sorrisi o addirittura in risate.
Questi aspetti preliminari possono essere adeguatamente riscontrati nel video della conferenza stampa all'indomani dell'unica e rilevante vittoria portata a casa dal PD, quella delle amministrative del 2011: osservando questa foto si può notare un Bersani ingobbito, curvo su se stesso, con le spalle arcuate, lo sguardo cupo rivolto verso il basso e gli angoli della bocca tirati in una smorfia. Beh, è questo il modo di dimostrarsi entusiasti difronte ad una vittoria elettorale? Che immagine si veicola in questo modo agli elettori? L'idea è quella di un leader quasi schifato dalla vittoria, come se lo avesse infastidito l'aver vinto una volta tanto. Pessima comunicazione caro Bersani.
Questi aspetti preliminari possono essere adeguatamente riscontrati nel video della conferenza stampa all'indomani dell'unica e rilevante vittoria portata a casa dal PD, quella delle amministrative del 2011: osservando questa foto si può notare un Bersani ingobbito, curvo su se stesso, con le spalle arcuate, lo sguardo cupo rivolto verso il basso e gli angoli della bocca tirati in una smorfia. Beh, è questo il modo di dimostrarsi entusiasti difronte ad una vittoria elettorale? Che immagine si veicola in questo modo agli elettori? L'idea è quella di un leader quasi schifato dalla vittoria, come se lo avesse infastidito l'aver vinto una volta tanto. Pessima comunicazione caro Bersani.
Venendo al linguaggio, quello di
Bersani si colloca all'opposto della formalità, soprattutto per gli
scarsi contenuti delle sue trattazioni: Bersani parla con toni
generali, si rivolge a possibilità remote, ad eventualità future, a
probabilità possibili senza parlare quasi mai di aspetti concreti,
di possibilità certe, di presunte sicurezze. Questa evidente
fuggevolezza semantica, questa narratività claudicante veicola un
sentimento di incapacità del leader, di mancanza di possibilità, in
termini semiotici di un non poter e un non saper fare. L'aspetto
colloquiale è importante per comunicare ciò che si desidera ed un
leader che si pone ad un livello di vaghezza generale certo non è
portatore sano di ottime capacità di parola. Tutto ciò, inoltre, va
ad unirsi ad una marcata inclinazione dialettale, in particolare
emiliana, che contraddistingue più di ogni altra cosa il linguaggio
di Bersani e che lo raffigura come un uomo di paese, una figura del
popolo, come si può essere portati a pensare; ma se questo aspetto
in un certo senso porta ad avvicinare Bersani alla gente comune,
perché parla e si esprime come un uomo della strada, è anche vero
che proprio questa prossimità alla gente lo allontana dalla politica
e quindi Bersani sembra un po' vicino alla politica ma anche un po'
vicino alla gente, ponendosi nel mezzo, e da questa peculiarità
derivano le sue note imitazioni del comico Maurizio Crozza che, da
bravo caratterista qual'è, ha evidenziato un aspetto tipico di
Bersani ingigantendolo a dismisura facendone una parodia; del resto,
le parodie e le caricature fanno leva proprio sulle debolezze e le
peculiarità altrui per poter funzionare e quella più evidente, nel
caso di Bersani, è proprio la sua cadenza emiliana: è da questa
imitazione che derivano le celebri metafore di Crozza come, ad
esempio, “Oh ragazzi, siam mica qui a smacchiare i giaguari”,
oppure “Ragazzi, siam mica qui a tagliare i bordi ai toast”, o
ancora “Ragazzi, siam mica qui a metter la crema da barba nei
Ringo” e, per concludere “Oh ragazzi, siam mica qui a togliere le
occhiaie ai panda” e via dicendo. Giocando proprio sull'uso delle
metafore che Bersani sfoggia nelle sue discussioni politiche, il
comico Crozza ha centrato un lato della debolezza comunicativa del
leader, il quale pare incapace di farsi capire al di fuori
dell'ordinario linguaggio corrente sentendosi quindi legittimato a
fare uso di metafore e detti proverbiali che difficilmente verranno
capiti dai non emiliani. Fanno parte del repertorio di Bersani frasi
come “Se piove, piove per tutti”, o “Il maiale non è mica
tutto di prosciutto” o il ben più famoso “Meglio un passerotto
in mano che un tacchino sul tetto”, quest'ultima frase alla stregua
del nonsense.
In ogni caso, al di la del valore
significante del logo, ciò che più stupisce nell'ideazione del
marchio è l'assenza del nome del leader: nel logo del PD manca la
dicitura “Bersani”. Questo aspetto è emblematico nonché
paradigmatico poiché una delle regole base della comunicazione
politica è rappresentata proprio dal riconoscimento del leader da
parte dell'elettore, riconoscimento che, se non coadiuvato dal volto
del leader stesso, è facilitato dalla presenza del suo nome nel logo
del partito e questa regola di base segna l'importanza strategica che
la figura del politico ricopre come rappresentante di una coalizione
poiché l'elettore non vota il programma elettorale ma vota il
candidato, non vota il partito ma vota la persona. Alla luce di ciò,
l'assenza del nome di Bersani dal logo del PD identifica una carenza
identitaria in questa forza politica, una compagine governata non si
sa bene da chi il quale non ha ben specificato cosa vuole fare.
A tal proposito può essere avanzata la critica, alquanto prevedibile seppur legittima, di coloro che vedono nella presenza del nome del leader nel logo la cosiddetta “personalizzazione” della politica di chiara impronta berlusconiana, ovvero un modo per accaparrarsi l'immagine intera della coalizione al fine di condensarla e concentrarla in un'unica persona, eliminando la rilevanza mediatica e ideologica di qualsiasi altro esponente del partito stesso. Ebbene, questa critica non trova ragione d'essere poiché questa presunta personalizzazione rappresenta una pratica comunicativa non soltanto propria di Berlusconi, bensì della maggioranza dei partiti italiani i quali, esattamente come avvenne per il centrodestra nel '94, riconoscono l'importanza cruciale dell'identificazione ideologica e identitaria dell'elettore nel nome del leader accompagnato al logo del partito.
Da ultimo, quindi, tale assenza o mera dimenticanza grafica di un semplice nome può a buon diritto rappresentare l'ennesimo carattere di sfiducia dell'elettorato di sinistra nei confronti dei rappresentanti politici ed esso costituisce infine una delle tante e carenti fallace comunicative perpetrate dalla sinistra a danno dell'immagine di se stessa.
A tal proposito può essere avanzata la critica, alquanto prevedibile seppur legittima, di coloro che vedono nella presenza del nome del leader nel logo la cosiddetta “personalizzazione” della politica di chiara impronta berlusconiana, ovvero un modo per accaparrarsi l'immagine intera della coalizione al fine di condensarla e concentrarla in un'unica persona, eliminando la rilevanza mediatica e ideologica di qualsiasi altro esponente del partito stesso. Ebbene, questa critica non trova ragione d'essere poiché questa presunta personalizzazione rappresenta una pratica comunicativa non soltanto propria di Berlusconi, bensì della maggioranza dei partiti italiani i quali, esattamente come avvenne per il centrodestra nel '94, riconoscono l'importanza cruciale dell'identificazione ideologica e identitaria dell'elettore nel nome del leader accompagnato al logo del partito.
Da ultimo, quindi, tale assenza o mera dimenticanza grafica di un semplice nome può a buon diritto rappresentare l'ennesimo carattere di sfiducia dell'elettorato di sinistra nei confronti dei rappresentanti politici ed esso costituisce infine una delle tante e carenti fallace comunicative perpetrate dalla sinistra a danno dell'immagine di se stessa.
Sarebbe interessante, così come ho
fatto con Veltroni, analizzare i manifesti e le campagne d'affissione
del PD nel corso degli anni ma questo discorso ci porterebbe troppo
lontani da questa trattazione, per cui rimando tale studio ad
eventuali post futuri.
Ma certo, come no. C’è una pietra dello scandalo che ha trascinato la politica italiana verso una mefitica, sciagurata personalizzazione, e qui s’interpreta la cosa come un aver riconosciuto “l’importanza cruciale dell’identificazione ideologica e identitaria dell’elettore nel nome del leader accompagnato al logo del partito”! Ridicolo. Di qui i partiti *padronali*, del tutto *privi* d’idee, come il PdL e appunto il Pd. La *negazione* della politica. Altro che “identificazione ideologica e identitaria”, siamo sempre all’uomo solo al comando di triste memoria. Se qualcuno cambia rotta merita solo il mio rispetto: certo, che è una strategia rischiosa! Hai visto mai qualcuno che abbia vinto una battaglia stando comodamente seduto in poltrona? E soprattutto è *democratico*. Onore al Pd da un suo fierissimo avversario.
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